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Interviste
Pubblicato il 04/06/2004 alle 14:57:52Commenti alla notizia: Leggi - Inserisci nuovo

"Il mio punto di vista": Paolo Pierelli e la Point of View

di: Massimo Giuliano

Riprendiamo il nostro ciclo di interviste ai “boss” delle piccole etichette, l’unica valida alternativa alle major. Stavolta tocca al romano Paolo Pierelli, fondatore della Point of View, con un passato da musicista.

Paolo Pierelli è un tranquillo signore sulla quarantina che bazzica da oltre 25 anni l’ambiente musicale: ha cominciato, come tanti, suonando, per poi spostarsi dall’altra parte della scrivania (ma con un occhio, comunque, alle esigenze dei musicisti) fondando varie etichette indipendenti. Da 7 anni gestisce la Point of View. Lo abbiamo incontrato negli uffici della sua casa discografica.



Paolo, perché questo nome, “Point of View”?
«Perché è il mio “punto di vista”! Prima di fondare, nel 1997, la Point of View, avevo avuto altre esperienze nel mondo della discografia, ma dopo un po’ mi ero sempre staccato perché non mi trovavo troppo d’accordo con la filosofia dei miei colleghi. Così 7 anni fa ho deciso di mettermi in proprio e tirar su un’etichetta che rispecchiasse in pieno il mio pensiero e il mio modo di intendere la musica: per me è importante che le cose siano fatte per bene, con qualità».

La qualità premia?
«Premia sempre, e non bisogna pensare che, se si è una piccola etichetta indipendente, ci si può sentire autorizzati a produrre dischi di bassa qualità, con suoni simili a quelli dei demo. No, il modo per far sì che una piccola etichetta sia in grado di tenere testa alle major è innanzitutto quello di badare molto alla realizzazione di dischi che possano essere competitivi sul mercato, non solo a livello di musica proposta, ma anche proprio a livello tecnico. Vorrei che la Point of View divenisse un marchio di qualità».

Come la pensano i tuoi colleghi indie?
«Mi ci sono spesso scontrato, perché secondo loro un disco indipendente di un’etichetta indipendente “deve” suonare meno bene di un disco “vero”: in questo modo, secondo me, si finisce solo per fare il gioco delle major, perché non si riesce a contrastarle».

È chiaro, dunque, che tu punti sulla qualità: è così che si può combattere la pirateria?
«Anche. Ma c’è da considerare pure l’abbassamento dei prezzi. È per questo che i nostri cd non costano più di 12 euro: se fosse per me, li venderei anche a meno, ma poi i distributori non li accetterebbero, perché potrebbero guadagnarci troppo poco. D’altronde, contenere il prezzo è una priorità: il ragazzino non può pagare 20 euro un cd, se deve comprarsi anche altre cose. Così facendo, è scoraggiato ad acquistare un disco, e di fatto non fa sacrifici per prenderlo. Se invece costa di meno, il discorso cambia. Il problema del prezzo è una questione vecchia: negli anni ’70 esistevano la Linea 3 e la Joker, che erano due edizioni speciali dei dischi, messe in commercio a metà prezzo per venire incontro a chi aveva pochi soldi per comprare gli album. Considerando che all’epoca gli Hi-Fi erano ancora rari, non si notava neanche che quei dischi costavano meno semplicemente perché erano realizzati con tecniche e materiali più scarsi. Oggi chiaramente non è più così, anche perché l’orecchio del pubblico è più allenato di un tempo, e quindi se un disco è di qualità scadente, ad esempio con un suono piatto o privo di bassi, la gente se ne accorge. Point of View cerca di ovviare a tutto questo: non siamo interessati a produrre cento dischi l’anno, registrandoli magari in due giorni; preferiamo piuttosto impiegarci di più, prendendoci tutto il tempo necessario, e realizzare meno album, ma con una qualità maggiore, sia sonora che tecnica. È per questo che dai gruppi io pretendo sempre il massimo: tutto dev’essere perfetto. Fin quando non vai precisamente a tempo col click, non mi va bene; fin quando non canti precisamente sulla tonalità su cui devi cantare, non mi va bene. Queste cose però vengono fatte sempre con serenità, senza pressioni, perché altrimenti i ragazzi non riescono a rendere».

Tu, oltre che della direzione della Point of View, ti occupi anche della produzione artistica e del missaggio dei dischi...
«Sì. Ciò è dovuto al fatto che ho una certa esperienza in materia, dal momento che in passato ho fatto anche il musicista, suonando nelle band come tutti. E prendendo, come tutti, le fregature. Ecco perché quando oggi metto sotto contratto un gruppo so cosa significa esser raggirati, e voglio evitare che a questi ragazzi possa accadere lo stesso. Anche per questo motivo la Point of View, compatibilmente con i propri impegni, cerca di essere sempre presente ai live dei propri artisti: è un modo come un altro per far sentire loro il nostro sostegno. Odio la figura del produttore che dice, svogliatamente, ai ragazzi: «Rifatelo meglio». Ma “meglio” come? Per quel che mi riguarda, cerco solo di far sì che i gruppi riescano a tirare fuori ciò che hanno dentro, troppo spesso represso, ma senza mai stravolgere il loro sound e il loro stile. Non mi pongo mai come un dittatore, ma come una persona precisa che vuole aiutare ogni artista a far emergere il meglio di sé. E se c’è un problema, se ne parla tranquillamente. Inoltre, siccome – come ti ho già detto – credo molto nella pulizia sonora degli album, mi occupo anche del missaggio, che è importantissimo, perché imprime una vera e propria identità al disco: in sostanza, non vuol dire soltanto alzare e abbassare i cursori. In ultimo, vorrei sottolineare che siamo ormai una delle pochissime etichette che fa ancora il mastering ai propri dischi».

Quali attrezzature utilizzate per incidere?
«Vieni nello studio, che ti faccio vedere...».



A questo punto la nostra conversazione si sposta nell’adiacente studio di registrazione della Point of View, dove si possono trovare strumenti musicali di ogni tipo (mi impressiona in particolare la gran mole di tastiere di tutte le epoche) e, soprattutto, attrezzature di registrazione molto vintage.



Sei ben equipaggiato...
«Bisogna essere pronti ad ogni evenienza. Vedi, qui ho molte macchine degli anni ’70, gioielli analogici che venivano utilizzati per produrre i dischi trent’anni fa. Questi apparecchi sono tornati utili per registrare, ad esempio, il disco degli Sweepers, un trio romano che stiamo producendo e che sta realizzando un disco molto “seventies”. Secondo me i dischi rock devono avere un suono analogico, come l’avevano gli album dei Led Zeppelin e dei Deep Purple, perché il rock suona così! Come vedi, però, ho anche diversi aggeggi digitali: questi sono più utili nel caso delle incisioni di gruppi che fanno elettronica».

Hai citato gli Sweepers: mi parli di qualche altro artista che state curando?
«Beh, innanzitutto c’è Angelica Scutti, che ha realizzato un ottimo singolo, “In una città”, di stampo molto cantautorale ma anche molto originale; ricordo di aver pensato, quando ascoltai il suo primo demo: «Questa qui o è un genio o è completamente pazza!». C’era qualcosa di molto affascinante nella sua musica, qualcosa che però non riuscivo a cogliere. Dopo un po’ capii cos’era quel quid: il suo modo di scrivere. È una grande songwriter. E poi ci sono Methel & Lord, due ragazzi che hanno appena pubblicato il loro cd d’esordio, “Pai Nai”: credo che un’elettronica suonata come fanno loro non si sia mai sentita. Si sono conosciuti alla Casa dello Studente di Roma, e noi siamo entrati in contatto con loro perché sentimmo a un concorso il demo che avevano realizzato. Lavorando bene sulle sonorità (il demo in questione lasciava intravedere che dietro c’era qualcosa, ma era realizzato male), siamo riusciti a sfornare un bel cd. Infine, ci sono tanti altri artisti che piano piano, senza fretta, stanno incidendo per noi i loro primi album».

Date spazio a tutti? Quali generi trattate?
«Trattiamo tutto ciò che può essere interessante da ascoltare: pop cantautorale, rock, elettronica, house, ecc… Siamo aperti a qualunque cosa, e del resto riceviamo centinaia di cd che puntualmente sentiamo e valutiamo: chiunque ci spedisca il proprio demo avrà sempre una risposta da noi, positiva o negativa che sia. A volte si è instaurato un vero e proprio scambio epistolare con i gruppi: mi portavano un demo, io dicevo loro cosa secondo me andava cambiato, e loro poi si ripresentavano con le modifiche effettuate. Una cosa del genere è successa, per esempio, con un gruppo hip hop: siamo andati avanti così per due anni, dispensando loro consigli».

E se un gruppo non vende?
«Se un gruppo non vende, abbiamo l’umiltà di guardarci in faccia e di dirci che se è accaduta una cosa del genere è stata perché noi abbiamo sbagliato qualcosa, non certo loro».

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