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Interviste
Pubblicato il 18/05/2007 alle 12:28:20Commenti alla notizia: Leggi - Inserisci nuovo

Una coraggiosa traversata tra ritmi ipnotici verso la “Sponda Sud”: intervista ad Eugenio Bennato

di: Ambrosia J.S. Imbornone

Il cantautore napoletano ha da poco pubblicato un disco anti-retorico, intenso ed appassionato, tributo ai ritmi ipnotici del Mediterraneo e alla musica popolare “dissidente”,di lotta, sofferenza e povertà. Ecco cosa ci ha raccontato del suo progetto

Il 20 aprile Eugenio Bennato ha pubblicato il suo “Sponda Sud”, fascinoso resoconto in suoni e parole del suo viaggio musicale con il progetto Taranta Power attraverso il Mediterraneo, per riscoprire immagini, storie e linguaggi della nostra tradizione e sentirla fulcro di un naturale, inevitabile incontro con le culture che ci circondano e attraversano da secoli.
Il movimento Taranta Power è stato fondato dall’artista napoletano nel 1999 e già nell’ardito accostamento linguistico del nome evidenzia la volontà di diffondere sul territorio nazionale e internazionale la taranta al di là di ogni facile folklorismo esteriore e deteriore, che sfrutti e depotenzi l’originaria forza impetuosa della taranta rituale. Il progetto, sulla scia di uno straordinario rinnovato interesse del grosso pubblico giovanile per questo ritmo travolgente, propone così nuove strade per la promozione della taranta che sfruttino diverse forme di creatività artistica (musica, cinema, teatro). Diverse sono state le pubblicazioni di quest’anno, a partire da “Taranta Power” (1999) dello stesso Bennato, da cui ha preso il via un vero movimento artistico e culturale che ha segnato una frattura con il precedente modo d’intendere la musica popolare in Italia. Oltre che della pubblicazione di cd, il “Taranta Power” si è occupato in questi anni della promozione dei grandi maestri della tarantella e dei giovani artisti che cercano di rinnovare dall’interno lo stile etnico meridionale con l’apporto di nuove sonorità; ha curato inoltre l’organizzazione di concerti ed eventi, che hanno oltrepassato le frontiere italiane per giungere in nazioni come Inghilterra, Spagna, Marocco, Albania, Egitto, Tunisia. Sono state fondate inoltre nuove scuole per l’insegnamento delle tecniche strumentali e di ballo a Bologna, Melbourne (Australia) e El Jem (Tunisia) e allestiti seminari che consentissero il recupero, lo studio e la divulgazione della cultura popolare dell’Italia meridionale.
Attualmente Eugenio Bennato è impegnato nel tour di promozione del disco, alla cui realizzazione contribuisce l’ Istituto per la tutela dei diritti degli artisti interpreti esecutori (IMAIE). Domani, 19 maggio, si esibirà presso la Cascina Monluè di Milano, nell’ambito della rassegna “Roda da Vida”(Via Monluè, ingresso con sottoscrizione a partire da 7 euro, ore 22.00), che si svolgerà dal 17 al 20 maggio con il patrocinio del Comune di Milano, per quattro giorni di musica, capoeira, incontri e presentazioni organizzati dall’Associazione Italiana di Capoeira da Angola.
Il 22 sarà poi a San Giuliano di Puglia (CB), il 24 sarà alla Rassegna Passepartour di Asti e il 26 a Capri (Quisisana).
Lo accompagnano sul palco Zaina Chabane (voce e ballo), Francesco Loccisano (chitarra acustica e battente), Mohammed Ezzaime El Alaoui (voce, darabouka e oud), Roberto Menonna (voce e tamburello), Stefano Simonetta (basso), Sonia Totaro (voce e ballo), Francesca De Miglio (voce e ballo).
Abbiamo chiesto ad Eugenio Bennato di illustrarci le tappe, i sacrifici, le soddisfazioni e le meraviglie del suo percorso musicale verso la “Sponda Sud”.


Ambrosia: “Sponda Sud” – me lo faccia dire – mi sembra davvero un piccolo capolavoro, intenso, appassionato e anti-retorico. La canzone che dà il titolo all’album si presenta come un brano-manifesto del progetto Taranta Power e di questo disco. Quanto le ha tolto in sacrifici e quanto le ha dato in soddisfazioni, esperienze indimenticabili, ecc. il suo nobile viaggio musicale controcorrente verso la “Sponda Sud”?

Eugenio Bennato: Sicuramente tra i sacrifici c’è stata la rinuncia all’impatto commerciale, visto che la musica di solito nei circuiti commerciali viaggia su binari diversi. Spontaneamente ho seguito la mia vocazione estetica e poetica e averlo fatto mi ripaga con l’originalità e con la dimensione internazionale che assumono canzoni come queste, che, anche se d’autore in quanto di mia composizione, collegano la mia etnia al Mediterraneo e mi permettono di essere presente in rassegne internazionali, fulcro di dialogo tra popoli e culture. Il mio viaggio musicale non si è fermato dal disco “Taranta Power” (1999) fino a questo. Ho già in mente qualcosa di nuovo: è importante che ogni tappa sia una partenza perché il bilancio di un autore sia positivo.

A: Ci vuole parlare di questo suo “Sud”, che in “Ritmo di contrabbando” definisce “clandestino e dissidente, che arriva fino al sound di Manu Chao”?

EB: Specificamente, il Sud d’Italia si pone oggi in alternativa alla musica di consumo con le sue componenti musicali, come il ritmo ipnotico e coinvolgente, che diventa elemento di aggregazione in controtendenza rispetto alla commercialità. In questo senso si tratta di un ritmo clandestino, che tra l’altro per secoli è stato vietato nella cultura ufficiale: pensiamo al tamburo vietato come elemento del diavolo. C’è stata invece nell’ultimo decennio una riscoperta rivoluzionaria di strumenti che appartengono alle nostre terre, come il tamburello: ci sono centinaia, migliaia di ragazzi che studiano le tecniche tradizionali e ritmi come la taranta e questo lascerà il segno anche nei prossimi decenni.


A: La musica popolare è stata molto spesso demonizzata, in effetti, forse anche perché espressione della lotta e della sofferenza delle minoranze “antagoniste” e di metaforiche o letterali periferie. Nell’album c’è un bellissimo tributo alle “canzoni della povertà” di Matteo Salvatore. Ci vuole parlare di questa figura e di “Italia minore”?

EB: Io ho conosciuto questo grande aedo, cantastorie e poeta per la prima volta quando ero un ragazzino e fui colpito dalla straordinaria bellezza ed eleganza delle sue canzoni e dal suo stile personale. Nella musica popolare aveva una marcia in più…Ci siamo frequentati e lui si fidava molto di me. Quando è morto, un anno e mezzo fa, sono andato al suo funerale e ho pensato che mi consegnava in qualche modo un’eredità e dovevo affermare il suo valore. Ricordo che c’era un manifestino a lutto che recitava: “Matteo Salvatore, cantastorie e poeta dei poveri”. E’ morto con questo contrassegno, come poeta che parlava dei mendicanti, della siccità, della sofferenza dei braccianti. C’è poi una differenza tra un’Italia maggiore e una minore, in cui sono relegati grandi artisti popolari che sono destinati spesso a restare anonimi e ad essere dimenticati.

A: Lei si occupa dello studio e della promozione della musica etnica almeno dal 1969. Poco fa accennava alla riscoperta della musica etnica negli ultimi decenni; negli ultimi anni la musica cosiddetta world è diventata infatti quasi una moda, che ha coinvolto anche la summenzionata taranta in Puglia. Chi come lei conosce e ama davvero la musica etnica come reagisce e cosa pensa della sua strumentalizzazione?

EB: Io sono schierato a favore della moda: questa musica correva il rischio di scomparire completamente, come tante cose in Italia. Meglio a quel punto che la musica etnica paghi lo scotto di diventare una moda e diventi pure criticabile. La musica popolare è legata alla sua funzione sociale e finché esistono i contadini con i loro riti e il morso della taranta, queste tradizioni continuano a sussistere, ma nella civiltà televisiva quella musica scomparirebbe, se non passasse attraverso l’arte e persino la moda. Ci sono casi analoghi in altre parti d’Italia e d’Europa. Penso per esempio al flamenco: ci sono negozi a Madrid che vendono dalle scarpe per i ballerini agli scialli, dalle castagnette ai dischi. Non si può però definire una moda, il flamenco è ancora vivo e ha un grande seguito. Capita la stessa cosa alla taranta: evviva la moda della taranta, piuttosto che quella dei balli latini-americani che possono andare anche bene, purché non ci sia l’appiattimento sulle mode esterofile, ma si possa contrapporre sempre alle altre tradizioni un nostro linguaggio.

A: Com’è possibile salvaguardare le tradizioni popolari dinnanzi al pericolo della globalizzazione, che può sia cancellare le culture locali, ma anche diffonderne una versione degradata e folcloristica?

EB: Per me lo si può fare solo in termini artistici, di creatività. Se in Spagna non ci fossero stati Garcia Lorca, Paco de Lucia, ecc. quel segnale si sarebbe spento. Sono gli artisti a rivitalizzare e rendere attuale un fatto d’arte. L’unica salvezza è che musicisti, letterati, cineasti si esprimano attraverso questo linguaggio, che continua a vivere se si trasforma attualizzandosi. L’alternativa è la scomparsa: se non si facessero concerti rivolti ad un grande pubblico, del ritmo della taranta non si sentirebbe parlare. In alcuni mega-festival sulla taranta poi la componente artistica è poco presente. E’ importante invece che resista questa scintilla ritmica straordinaria, che si può ottenere anche con tante contaminazioni, purché si resti fedeli allo spirito originario.

A: Alla festa della taranta manca spesso proprio la taranta, insomma, come lei dice nell’album?

EB: Sì, spesso succede. Ho visto il festival di Melpignano dell’anno scorso in videocassetta ed era imbarazzante vedere come il pubblico non fosse coinvolto e non ci fosse la giusta magia. Il festival di per sé è importante, come è fondamentale che ci sia tutta quella gente che vi si reca come in un pellegrinaggio. Però è anche essenziale che ne esca catturata dall’energia della taranta. In questo senso per me è molto importante la creatività.


A: Con Taranta Power si è esibito e ha organizzato eventi in Marocco, Egitto, Tunisia, Spagna… Secondo lei è possibile realizzare canzoni come quelle di “Sponda Sud” perché al fondo delle varie tradizioni musicali ci sono le stesse passioni che rendono simili e amalgamabili i ritmi e le lingue?

EB: Questo sicuramente avviene, ma bisogna amalgamare i ritmi e le lingue senza forzature. Io l’ho fatto in modo sempre molto spontaneo e naturale, senza schemi precostituiti. Per me inserire il coro dei bambini di Addis Abeba è straordinario, ma non è una trovata: io penso che la loro musicalità, il loro dialetto, ecc. siano perfettamente in linea con i miei gusti. Mi trovo molto meglio a lavorare con Mohammed El Alaoui, che proviene dal Marocco, con la sua voce e il suo timbro, che non a confrontarmi con forme che mi sono apparentemente più vicine, ma più lontane da un punto di vista culturale. La musica etnica del Sud ha un naturale riscontro nel Mediterraneo.

A: Per parafrasare alcune parole di “Verso il sole”, com’è l’Africa osservata dallo sguardo occidentale?

EB: E’ un’Africa vista con un’aria di superiorità e sufficienza; si pensa all’Africa dell’immigrazione, delle giovani donne sui marciapiedi o agli uomini che si dedicano al contrabbando. Invece mi ha colpito dell’Africa la sua grande compostezza ed eleganza, nonostante i problemi di crescita economica. Nella canzone allora la figura della rondine mette in crisi i nostri concetti di civiltà e libertà.


A: Come mai in una canzone dedicata alla luna napoletana ha deciso di affiancare proprio il brasiliano al napoletano?

EB: E’ una scelta legata alla nascita della canzone. L’inciso, dopo averlo composto, mi sembrava connesso al mio amore per la musica brasiliana. Sembrava proprio una canzone brasiliana, anche se l’ho scritta a Napoli e l’ho dedicata alla mia bambina, che era appena nata. Per una combinazione lei ora è sulla copertina del disco in una foto che è stata scattata proprio a Bahia!Quando era piccola, io le auguravo di volare dall’Europa attraverso l’Atlantico, per arrivare fino a Bahia e di girare tutto il mondo con una melodia. Si tratta quindi proprio di un collegamento musicale.

A: “Angeli del Sud” e “Ogni Uno” parlano anche di convivenza interculturale e multirazziale. Per vivere insieme a etnie diverse, bisognerebbe rispettare la ricchezza della diversità e sostituire ai pregiudizi la volontà di conoscere lingue, culture e religione?

EB: Sì, è esattamente questo. E’ un concetto molto semplice che ho vissuto in prima persona. Alcuni musicisti e cantanti che ora sono nella mia band erano da noi come emigranti e bisognava scoprire il loro spessore artistico. Per fare questo bisogna avere una predisposizione verso la ricchezza culturale degli altri, fino a comprendere che in ogni popolo c’è una ricchezza. Quanti arrivano da noi talvolta sono abbrutiti dalla necessità quotidiana che li può instradare in percorsi sbagliati. Il mio tour è un esempio pratico della possibilità invece di ricevere ricchezza dall’immigrazione. Zaina Chabane, che è la voce africana nel disco, era a Napoli e non cantava, ma me la sono ritrovata lì e mi ha ispirato delle composizioni, perché mi comunicava una grande energia. Io penso che la cultura italiana possa rivitalizzarsi grazie a queste presenze. E’ quanto è successo nel secolo scorso negli Stati Uniti, dove gli ex-schiavi hanno portato alla musica, allo sport, all’arte energie straordinarie.

A: Secondo lei, nella vita dei giovani, a Napoli, come in tante altre città, la musica può essere, oltre a una valvola di sfogo e un mezzo d’espressione, pure un’ancora di salvezza?

EB: Oggi la musica ha un ruolo molto importante, perché fa sempre parte della nostra giornata e ascoltiamo musica di continuo. E’ un mezzo straordinario per dare delle emozioni e veicolare dei messaggi. Una volta la musica era un fatto d’elite, si ascoltava solo in alcune situazioni; nei secoli scorsi era appannaggio delle corti o delle feste popolari nei paeselli. D’altra parte abbiamo assistito a fenomeni musicali che hanno cambiato il mondo, da Bob Dylan ai Beatles e alla beat-generation e al rock. Io penso anche alla musica etnica in Italia oggi…La musica insomma può incidere in effetti sulla mentalità di un popolo.

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