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Interviste
Pubblicato il 27/06/2007 alle 16:11:08Commenti alla notizia: Leggi - Inserisci nuovo

La saggezza della semplicità di Enzo Gragnaniello

di: Ambrosia J.S. Imbornone

L’erba cattiva,titolo del nuovo cd di Enzo Gragnaniello,può essere strappata ma non muore: è la tenacia della poesia e di Napoli.E' la costanza di un artista e della saggezza della sua semplicità, nella sua adesione alla musica come rito sciamanico.

L’erba cattiva,titolo del nuovo cd di Enzo Gragnaniello,può essere strappata ma non muore: è la tenacia della poesia e di Napoli.E' la costanza di un artista e della saggezza della sua semplicità, nella sua adesione alla musica come rito sciamanico.

E’ uscito lo scorso 4 maggio, a due anni da “Quanto mi costa” (2005, Rai Trade) il nuovo album L’Erba Cattiva di Enzo Gragnaniello per la Radiofandango, che così continua a dimostrare la sua attenzione alle aperture del cantautorato ricco di contaminazioni che si appellano alle radici della propria cultura e delle culture mondiali. Non c’è bisogno infatti di assumere connotazioni fortemente esotiche, ma è possibile scoprire i ritmi, le emozioni, i canti di dolore e di rabbia degli altri popoli ed etnie nei propri, per moltiplicare il potere di suggestione della propria musica fino a renderlo universale. “Un richiamo ancestrale alla dignità di ogni essere umano nel suo sentire autentico”: così il cantautore ha definito il suo nuovo album, che dimostra per l’ennesima volta il suo grande talento, espresso soprattutto nei virtuosismi di chitarra che da sempre l’hanno fatto apprezzare per intensità viscerale e drammatica. Gragnaniello sente dentro la vocazione di raccontarsi e raccontare attraverso la musica e si fa voce scomoda di un’esigenza di pace e di sincerità sommersa da sorrisi di facciata e atrocità mascherate dalle ipocrisie dell’interesse. Con la costanza dell’erba cattiva del titolo, sa farsi ascoltare con la saggezza antica di chi conosce il mondo, tra le carezze di un ritmo accattivante e finezze jazzate, tra il fascino insinuante dell’oud di Erasmo Petringa e le percussioni dotate del suadente calore latino di Emidio Petringa, tra pop chitarristico alla Santana e la “saudade” dell’ariosa ma malinconica “A’ verità”, che “se lagna”, per essere calpestata e ignorata. La canzone che dà il nome al disco e “Nun è rapace” hanno quasi un sapore country, mentre “L’ammore overo” ricorda Celentano, per cui il cantautore partenopeo ha scritto “Cercami”, inserita nell’album “Arrivano gli uomini” (1996). Sospesa ed eterea risulta invece la ritmica di “Madonna ‘e l’arco mia”, in cui Enzo si cimenta anche con l’Hammond, mentre l’ammaliante “Evviva ‘e razze” mescola al magnetico suono del qanun di Abdullah Chhadeh la ciaramella di Riccardo Veno in un brano ricco di arpeggi di chitarra acustica e assoli, che ricorda che tutte le razze sono “spezie, sang, vene, cuore e seme”, tutte sono “cieche, male, bene, false e vere”, allo stesso modo.
Nato il 20 ottobre 1954, il suo esordio in musica risale al 1977 con il gruppo Banchi Nuovi. In questi trent’anni di carriera Gragnaniello ha collezionato collaborazioni che hanno dato il giusto lustro al suo spessore di autore e chitarrista. Per Mia Martini, ha scritto brani come “Stringi di più”, la toccante e straziante “Donna”, o “Cu ‘mmè”, interpretata nel 1991 con il maestro Roberto Murolo e tradotta in diverse lingue. Con Ornella Vanoni ha cantato “Alberi” a Sanremo ‘99, mentre per Andrea Bocelli ha composto “O mare e tu”, interpretata con Dulce Pontes nell’album campione di vendite “Sogno”. L’anno scorso ha duettato con Dario Fo nel disco delle Nacchere Rosse “Sciascià” e non ha mancato di avvicinarsi al mondo del teatro: ha infatti musicato per Silvio Orlando due farse di Peppino De Filippo, “Don Rafelo 'o trombone” e “Cupido scherza e spazza”, mentre il 2007 ha visto, nel mese di aprile, il debutto del musical “Io speriamo che me la cavo” con la sua colonna sonora.
La sua musica è riuscita a varcare in questi anni le soglie più illustri, persino inattese: non solo ha incantato la giuria giornalistica del Premio Tenco, che lo ha decretato vincitore della targa per la sezione Canzone dialettale per ben tre volte (1986, 1990, 1999) ma è entrata a Santa Maria Capo Vetere, che ospitò un concerto per la prima volta dopo milleduecento anni nell’ambito del tour Clamor et Gaudium, nato dopo il duetto in mondovisione con Cecilia Gasdia sulle note di Canto a S. Alfonso de' Liguori. Inoltre il cantautore napoletano può vantare una serie di concerti al Teatro San Carlo di Napoli che per lui aprì per la prima volta le porte ad un cantante pop: questo episodio fu spunto fecondo per Michael Pergolani e Renato Marengo che gli dedicarono un libro - con Cd allegato- intitolato "Dai Quartieri al San Carlo" (Rai-Eri). Abbiamo parlato con Enzo Gragnaniello del suo ultimo album.

Ambrosia: La copertina del disco rappresenta una tartaruga davanti ad un labirinto di sabbia. Come mai quest’immagine e che significato ha il labirinto nell’omonima canzone?
Enzo Gragnaniello: Quel labirinto può rappresentare simbolicamente gli ostacoli che creiamo dentro di noi, ma che non sono altro che sabbia. Costruiamo spesso un labirinto immaginario dentro di noi, anche dove dovrebbe esserci la libertà, come in una spiaggia che poi termina con il mare…Nella canzone si evidenzia che spesso lasciamo questa vita terrena senza darci la possibilità di comprenderla e averne coscienza.

A: Come mai ha deciso di intitolare questo disco “L’erba cattiva”?
EG: La vedo come qualcosa che non muore mai: è quell’erba che puoi strappare tante volte, ma poi ricresce. E’ come la poesia, l’arte, la mia città, Napoli, che è calpestata, ma non si arrende e continua a vivere. L’erba cattiva, in senso buono, è la parte essenziale della vita chef eterna.

A: Come ha deciso di mescolare strumenti della tradizione nostrana, come la tammorra e la ciaramella, al liuto arabo (l’oud), al whistle, al qanun?
EG: A volte il musicista è un po’ come un cuoco che in cucina mescola i vari ingredienti. Poi si tratta di strumenti che bene o male in qualche modo mi appartengono: Napoli è stata abitata da tante razze che ci hanno sempre lasciato qualcosa. Poi questo non vuole essere un disco di musica etnica, di world music, ma un lavoro personale. Qualche strumento etnico è giusto che ci sia, perché è un ingrediente fondamentale. L’oud è uno strumento religioso, la tammorra, qui usata solo in un pezzo, ha un suono tribale, rituale, appartiene ai canti sciamanici, che rappresentano la terra vesuviana, la Napoli di una volta, non quella metropolitana di oggi. Questi strumenti conservano le radici delle nostre tradizioni, che non sono quelle ‘vanitose’, ma appunto quelle sciamaniche.

A: “ ‘Stu criato” è ispirata alla Tarantella del Gargano: ci vuole parlare di questa scelta?
EG: La Tarantella del Gargano è un giro armonico del Sud Italia, come il giro armonico del blues, composto da 4 accordi, ognuno poi ci scrive la sua canzone. Io mi sono ispirato alla Tarantella, ma ho ridotto gli accordi da 5 a 2, ho scritto io il testo, l’ho resa più cantautorale, usando un linguaggio diverso, e ho reso il ritmo e il cantato meno sincopato.

A: “Femmina so’ stat’” è un tentativo di immedesimazione nella figura femminile. Alla donna lei ha anche dedicato un capolavoro portato al successo da Mia Martini (“Donna”). In questo brano invece c’è la voce di Pietra Montecorvino. Da uomo che concezione ha del mondo femminile?
EG: Beh, io penso che una parte di me sia donna, perché per me la donna rappresenta la parte più nobile, gentile ed elegante. E’ una componente che spesso manca agli uomini, perché devono proteggere loro stessi, la loro donna, e diventano più rozzi, gutturali, parlano in un certo modo per marcare il loro territorio… Ma questo è un altro discorso: io credo nella reincarnazione e sono convinto di essere stato davvero molte volte donne in altre vite, o magari di essere stato anche gay… Questa sensibilità io la sento quindi molto naturale in me: vedo la donna infatti come un vero punto di riferimento per diventare meno aggressivi. Penso di essere stato una donna violentata, lo sento, è come se ne portassi i segni dentro.

A: Come mai ha deciso di dedicare “Non è rapace” a Matteo Salvatore? Come le ha ispirato questo brano?
EG: Matteo era un cantastorie naif, molto originale, con un grande sentimento per la sua terra. Era un uomo semplice e quando lo sentivo cantare avevo i brividi: nelle sue canzoni c’era un mondo primitivo, che in un certo senso mi apparteneva. Era un grande poeta ed artista e va ricordato: è molto importante per la cultura del Sud…ma anche per quella del Nord!

A: Che valore assume per lei comporre brani in dialetto? Che importanza attribuisce al suo dialetto?
EG: Beh, l’importanza e il valore che un albero di mele dà alle sue mele. Io sono nato ai Quartieri Spagnoli: gli umori, tutto quello che ho assorbito da quando sono nato è in dialetto. Non vedo una lingua migliore per me, è impregnata della storia che ho vissuto e mi appartiene. Tutte le lingue di tutte le etnie sono sacre; ogni etnia ha una lingua, che è come una preghiera ed è una sua parte come un organo per un corpo. E’ importante quindi che ognuno si esprima nella sua lingua originaria.

A: Facendo un bilancio della sua lunga carriera, quali sono stati gli artisti che più l’hanno influenzata e potrebbe definire i suoi maestri?
EG: Io da piccolo lavoravo in un night e ascoltavo molto gli americani: mi piaceva particolarmente Otis Redding, all’epoca lo sentivo molto al juke-box di quel locale. Tra gli italiani, invece, potrei citare Sergio Bruni e Roberto Murolo, lo stesso Matteo Salvatore. Poi amo in qualche modo Tom Waits e ammiravo molto il pakistano Nusrat Fateh Ali Khan, che trovavo straordinario, molto evocativo. Io conosco le loro anime: amo tutti gli artisti che cantano con un senso religioso dentro.

A: Attualmente sta portando il disco in tour?
EG: Sì, presenterò il disco con tutta la sua scaletta e poi le canzoni della mia produzione storica.


Prossimi concerti:
7 luglio Catania
16 luglio Mattinata
20 luglio Buonabitacolo
27 luglio Perugia
30 luglio Pellezzano
4 agosto Montefalco

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