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Pubblicato il 20/02/2006 alle 17:28:16Commenti alla notizia: Leggi - Inserisci nuovo

Vinicio Capossela - Ovunque proteggi (Warner)

di: Ambrosia J.S. Imbornone

Capossela è tornato con un album gonfio di malinconie e ricco di riferimenti culturali,che si fanno in lui carne e sangue,in un tessuto musicale sempre efficace e raffinato.

Mentre per salire le classifiche tanti “produttori di hit” ci propinano spremute di cuore in condensati di banalità mielose, Vinicio Capossela da anni si è riservato un ruolo diverso da quello del sospiroso e pseudoromantico innamorato. Si propone come il “corvo torvo”, un “dannato tra gli inferi dei bar”, un iconoclasta alla Cecco Angiolieri che si compiace di offrire di sé un’immagine volutamente e ironicamente truce e ricca di difetti, che si riassume poi in quella di artista bohemienne e “maudit” (o meglio “modì”). Nel suo ultimo singolo poteva quindi non schierarsi dalla parte di Golia, anziché da quella del già osannato e beneamato Davide, e, rievocando i ricordi d’infanzia, “Dalla parte di Spessotto” (“impastro” squattrinato, spettinato e un po’ imbroglione) anziché dalla parte del fortunato e un po’ perfettino Davide? La discendenza da “quei farabutti di Adamo e di Eva” e la cacciata dal Paradiso diventa quindi per lui quasi un sollievo e un vanto, come in un celebre sogno della Catherine di “Cime tempestose”. Eppure di veramente diabolico Vinicio ha solo questo: come Mefistofele, ruba l’anima. Dei posti che visita o in cui incide le canzoni, dei personaggi della storia, della letteratura, della mitologia e della sua mitografia personale che rivivono in lui e nelle sue canzoni. Con le sue diavolerie sonore, poi, grazie alla sua geniale e sorprendente inventiva, ruba l’anima anche allo spettatore, che si ritrova all’improvviso “nel pancia della balena” come Spessotto, a percorrere le strade del proteiforme mondo interiore caposseliano, colorato di tinte forti sì, ma anche di sfumature delicate. Sì, perché, anche se i luoghi comuni sui sentimenti li ha attraversati, superati e gettati nella spazzatura già con “Che coss’è l’amor”, Vinicio resta, a dispetto pure delle sue maschere e della musicalità intrinseca e appariscente dei giochi pirotecnici di molti suoi versi, un’anima profondamente sensibile. Anzi, proprio perché lontana dalle convenzioni ed espressa in forme originali e raffinate, la sua sensibilità si rivela ancora più autentica e illumina dall’interno anche le canzoni del nuovo album, il sesto disco di inediti della sua carriera. A questo proposito si possono citare i brani più toccanti dell’album, gravidi di una palpabile malinconia e concentrati nella seconda parte del cd, quella più classicamente caposseliana (e quindi anche più pianistica). “Dove siamo rimasti a terra Nutless”, nonostante i divertenti squarci di tip-tap all’insegna del banjo di Marc Ribot (già al fianco di Elvis Costello, Lounge Lizards e Tom Waits), è una mesta riflessione su come si scivoli dagli entusiasmi giovanili e goliardici alle sonnolenti abitudini piccolo-borghesi, tra vecchi e nuovi tristi status-symbol (le sere davanti alla tv, “il sabato all’Iper, a far la spesa”). L’acustica serenata “Pena de l’alma”, rielaborazione di un brano tradizionale messicano, dimostra il sapiente gioco di pieni e di vuoti negli arrangiamenti del disco; la splendida “Lanterne rosse”,invece, attorno ad un piano degno di un notturno soffonde le voci sottili, chiare o tremule, di antichi strumenti cinesi, che paiono soffusi, piccoli pianti in musica che trasportano in un’atmosfera onirica da leggenda popolare. La nuova veste sonora del capolavoro “S.S. dei Naufragati”, la cui base musicale è stata composta da Vinicio con Fabio Barovero (fondatore dei Mau Mau) e Roy Paci per l’album della Banda Ionica “Matri mia” (2002), è una litania di morte sospesa tra la poesia di Coleridge e i racconti di Melville, scandita dall’armonio, dai ricami di violoncello, dalla mirabile interpretazione caposseliana e dalle voci del coro della cappella di San Maurizio(MI). “Ovunque proteggi”,infine, realistica e avvolgente ballata dell’amore imperfetto ma inossidabile della maturità quasi al livello di “Non è l’amore che va via”, chiude circolarmente l’album con un linguaggio da promesse matrimoniali che ricorda gli esperimenti di commistione, innovazione, stravolgimento della tradizione culturale e religiosa delle prime canzoni del cd. Capovolgendo in questa analisi l’ordine della tracklist per il principio del dulcis in fundo,c’è da dire che le tracce più sconvolgenti e fresche di “Ovunque proteggi” sono proprio le prime, per quanto siano frutto di capacità combinatorie sicuramente già notate in Capossela. Affascina il grande potere evocativo delle sonorità arcaiche di “Non trattare”, che efficacemente riutilizza moduli espressivi biblici, e “Brucia Troia”, che attraverso le immagini mitologiche, il suono dello xilofono africano e le voci di Gavino Murgia e dei tenores di Mamoiada, esprime la violenza primordiale di sentimenti ambivalenti di amore/odio. Il sound techno russo-giapponese di “Moskavalza”, arrangiata da Gak Sato, assomma invece una travolgente valanga di immagini della megalopoli russa e della sua lingua per raffigurarne la degradazione dal passato di grandezza e splendore (dagli zar alla rivoluzione, dal sogno suprematista alle vittorie olimpiche e alla conquista dello spazio) fino all’attuale degradazione della prostituzione. Scarne ed impressionanti poi le sonorità di “Al Colosseo”, che canta l’arena gladiatoria dell’attuale sadismo voyeuristico, e de “Il rosario de la carne”, monologo sul “marcire” e il “fiorire” della carne sullo sfondo sonoro degli insetti che tormentano il bestiame. Se “Medusa cha cha cha” trasforma il mito in un gustoso pezzo scherzoso e ballabile, le bande de “L’uomo vivo(Inno al Gioia)” (con egregio arrangiamento di Roy Paci) e di “Dalla parte di Spessotto”, che addirittura assolda i musicisti che suonarono al matrimonio dei genitori di Vinicio, affondano le radici nei riti delle feste popolari, strizzando l’occhio ogni tanto a Renzo Arbore o al cinematografico Nicola Piovani. Capossela è infatti capace di dipingere grandi affreschi di tragici naufragi, di diventare quasi cantore epico della violenza dei sentimenti, ma anche di immortalare con un sorriso le piccole piazze di paese, gli anfratti del cuore, le ombre dei dolori oscuri quotidiani. Così il “gran vals impressionante” di “Nel blu” ti trascina allo stesso tempo ad un sontuoso ballo delle debuttanti o in una normalissima casa gonfia di ricordi, perché l’illusione, già definita dall’artista “lusso della gioventù”, “è tutto nella vita”: anche chi vive sul filo o ai margini è re del mondo, perché pure nella povertà dell’artista bohemienne o nella solitudine (del Minotauro alla Borges di “Brucia Troia” o ancora più semplicemente dell’uomo comune) non perde la ricchezza del cuore e dell’immaginazione. Come diceva Vinicio in “Che coss’è l’amor”, “Se è questa la miseria, mi ci tuffo con dignità da rey”.
Un disco che esibisse con tanta discrezione, grazia e umiltà tale fitta trama di echi letterari e culturali, elargisse tante emozioni grazie ad un talento interpretativo fuori dal comune e suonasse così follemente fuori dall’ordinario poteva sfornarlo solo questo cantautore irregolare. Per nostra fortuna l’ha inciso davvero e c’è chi grida già al miracolo. Valeva davvero la pena di attendere sei anni il nuovo lavoro di quel diavolo di Capossela, che aveva risvegliato il panorama musicale e resuscitato i morti con l’energia antica del suo “Ballo di S. Vito”: bentornato Vinicio.


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