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Francesco De Gregori (RomaRock Festival, Capannelle, 30/06/2008)di: Alessandro Sgritta Francesco De Gregori ha aperto il RomaRock Festival alle Capannelle con uno splendido concerto in cui ha ripercorso tutta la sua carriera, da "Cercando un altro Egitto" fino all'ultimo "Per brevità chiamato artista". Il Principe colpisce ancora. In un ippodromo delle Capannelle gremito ma non stracolmo (forse per via dei prezzi non proprio “popolari”) il 30 giugno scorso ha preso il via il RomaRock Festival 2008 con il concerto di Francesco De Gregori (nella foto di Giancarlo Fiori), partito alle 21.50 con la storica “Cercando un altro Egitto” (dal disco senza titolo con la pecora in copertina del 1974). La band si presenta con due giovani chitarre elettriche in primo piano (quelle di Lucio Bardi e Paolo Giovenchi), più l’acustica del “Principe”, dietro il basso di Guido Guglielminetti (il “capobanda”), la batteria di Stefano Parenti, le tastiere di Alessandro Arianti e la pedal steel di Alessandro Valle. Segue “Finestre rotte” dall’ultimo “Per brevità chiamato artista”, che sembra la descrizione della violenza quotidiana nelle metropoli moderne o forse di un futuro non troppo lontano (“c’è gente senza cuore in giro per la città… di notte bruciano persone e cose solo per vedere che effetto fa”), poi “Capo d’Africa” (da “Viva l’Italia” del 1979) con un tempo in ¾ e luce verde sul palco. Dopo un intro di tastiere da orchestrina jazz parte “Titanic”, il Principe è elegantissimo in un completo grigio, giacca e cravatta e panama bianco ("ma chi l'ha detto che in terza classe si viaggia male..."), le luci diventano rosse per la successiva “L’abbigliamento di un fuochista” (sempre dal capolavoro “Titanic” del 1982), poi da solo imbraccia l’acustica e canta la sublime “Pezzi di vetro”, il silenzio è rotto dai soliti aficionados che pretendono di cantare a squarciagola tutte le canzoni. La bellissima “Deriva” dallo splendido “Amore nel pomeriggio” (2001), uno dei suoi dischi migliori degli ultimi anni, sembra cucita perfettamente sul Principe ("così gentile e inafferrabile... impermeabile alla volgarità"), poi “Battere e levare” da “Prendere e lasciare” (1996) con il violino di Lucio Bardi e l’armonica a bocca suonata da De Gregori nel finale. “Festival” è dedicata a Luigi Tenco, con lunghi assoli di chitarra e quella domanda “chi ha ucciso il giovane angelo che girava senza spada?” che ancora non trova risposta dopo tanti anni, poi quando da solo con la chitarra intona “Rimmel” trova ancora il pubblico pronto a cantare in coro e lui cerca di rimediare spostando le rime del testo (in questo chi vi scrive è totalmente d’accordo con De Gregori, ai concerti si va per ascoltare qualcosa di nuovo, di inedito, di diverso quanto meno, se uno va per ricantare la canzone esattamente com’è nel disco tanto vale che se ne stia a casa seduto in poltrona davanti allo stereo o al karaoke di Fiorello). Lo stesso accade con “Buonanotte fiorellino” che De Gregori rallenta all’improvviso per poi ripartire velocemente quasi per non dare la possibilità di cantarla in coro, il che la rende sicuramente meno sdolcinata (già è un valzer d'amore, sarebbe stucchevole), quindi è la volta de “L’angelo di Lyon”, una bella canzone americana di Tom Russell e Steve Young tradotta in italiano dal fratello Luigi Grechi (il cognome della madre) che è stata definita da De Gregori "una canzone sull'impenetrabilità dei sentimenti". Quindi va da solo al piano per la struggente “Santa Lucia”, una delle sue canzoni più delicate e intense, direttamente da “Bufalo Bill” (1976), rimane seduto al piano per “L’infinito” (dall’ultimo disco) con accanto il basso di Guglielminetti, cui segue l’autobiografia fantasticata di “Celebrazione” che ricorda i "posti dove non tornare...certe stanche stanze dove discutono di poesia...di terrorismo e di fotografia" e gli anni in cui “la sinistra era disoccupata” (cambia il testo). Anche la successiva e indimenticabile “La leva calcistica della classe ‘68” è ambientata più o meno in quel periodo (sono passati 40 anni dal ’68). “Alice” è diventata un valzer mentre “Vai in Africa, Celestino!” (da “Pezzi” del 2005) è molto tirata e accompagnata dal battito delle mani del pubblico. Dopo “La valigia dell’attore”, la splendida canzone scritta in origine per Alessandro Haber e poi fortunatamente ripresa da lui stesso, presenta la band: Giovenchi, Parenti, Valle, Arianti, Bardi e Guglielminetti, con “Il bandito e il campione” (scritta sempre dal fratello Luigi Grechi, di cui cambia parte del testo) si conclude ufficialmente il concerto con dei simpatici cori “western”. Il Principe saluta tutti e se ne va, per poi ritornare sul palco poco dopo solo con l’accompagnamento di Arianti al piano per un'epica versione de “La donna cannone”, forse la canzone italiana più bella di sempre. Quindi è la volta di “Per brevità chiamato artista” (che dà il titolo all'ultimo disco e prende il nome dal modo in cui veniva chiamato sui contratti discografici), un valzer in ¾ che ricorda musicalmente “Buonanotte fiorellino”, con solo di steel guitar, mentre il finale è affidato ad una nuova versione riarrangiata in chiave rock-blues di “Viva l’Italia” (con tutti i significati che può avere oggi cantare ancora in coro "l'Italia che resiste"), con un bellissimo crescendo e la fisarmonica di Arianti sul finale. Articolo letto 6245 volte Riferimenti Web
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