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I Radiohead e la sinfonia delle solitudini metropolitanedi: Ambrosia J.S. Imbornone Tra i colori della scenografia luminosa, all’Arena Civica il 18 giugno hanno trovato risalto le contraddizioni di una musica dalla doppia anima, che si muove tra elettronica e rock, tra ballate rallentate e accelerazioni rabbiose. I Radiohead hanno cominciato il loro percorso musicale comune come On Friday appena adolescenti, nella seconda parte degli anni ’80. Il successo di “Creep” più di quindici anni or sono sembrò poi un fuoco di paglia: c’era chi preconizzava che si sarebbe spento presto, ma ancor di più forse c’era da temere che fosse effimera l’immagine che di sé il gruppo dava all’epoca con quel brano e che con il tempo il divismo avrebbe catturato anche gli idoli degli adolescenti introversi, che di una sensibilità complessa e allucinata avrebbero fatto la loro bandiera. Invece, alle soglie dei quarant’anni, Thom Yorke è ancora maledettamente “creep”. Nel modo di vestire, nell’estetica, nei movimenti disarmonici e spezzati che ne animano i momenti di danza improvvisata, sospesi tra il surreale e la magia del rituale. E’ così che si presenta ancora sul palco dell’Arena Civica di Milano, scelta dopo accurati studi sull’impatto ambientale dei concerti per la sua posizione nel centro della città, per ridurre le emissioni di CO2 prodotta dagli spostamenti in auto. Durante la prevendita del sito ufficiale, infatti, si consigliava apertamente ai fan di adoperare i mezzi pubblici. Il concerto, annunciato come unico spettacolo italiano com’è noto, è stata presa d’assalto dai fan, portando la band a raddoppiare l’appuntamento milanese del 18 giugno con un’altra tappa il 17. Non sono cambiate insomma le preoccupazioni ambientaliste della band, come non hanno subito modifiche di sorta nel tempo le tematiche e le atmosfere delle canzoni, aliene e scevre da preoccupazioni commerciali. Assecondare la fame di hit del pubblico eterogeneo del concerto, differente per età e background musicali, non è nel loro stile. I Radiohead continuano a rivoluzionare la loro musica e la musica restando più che mai fedeli a loro stessi e non percepiscono fratture nel loro repertorio tra pezzi celebri e misconosciuti. La setlist diventa così l’orchestrazione di un’unica sinfonia, quella delle nevrosi e delle solitudini metropolitane, che si nutre di inquietudini in salsa elettronica, per misurare l’alienazione disumana di un universo meccanico e anonimo, e della carica emozionale travolgente delle rock ballad, tra indie ante-litteram e magistrale drammaticità. Le strutture tubolari che scendono sul palco sono il supporto di una mirabile scenografia di luci in perfetta consonanza con le raffiche di irrequietudini che si muovono sul palco e si fanno pallide e livide, tetre e violette, si colmano delle sfumature incandescenti dell’arancio, o si fanno sfondo di scintillii che riproducono l’andamento delle onde del suono o ne accompagnano il fluire a tempo. Le contraddizioni di una scaletta che abbraccia e comprende vaste gamme di emozioni umane si fanno così anche colore e immagine, grazie anche ai maxischermi collocati sul palco. Nella setlist c’è spazio infatti per la coppia delle canzoni più struggenti di “In Rainbows”, con la perentorietà dei sentimenti di “All I Need” e la desolata disillusione di “Nude”, come per la fulminante elettronica di “The National Anthem”, introdotta da campionamenti di notiziari in italiano, e della “Idioteque”, quasi parodia della dance music tratta dallo spiazzante e corrosivo “KidA” (2000). Non manca il giusto risalto agli strumenti “tradizionali”: favoloso il basso di Colin Greenwood in pezzi come “Airbag”, nell’obliqua, inquietante “Dollars and cents” o nell’acclamata “Just”, mentre davvero straordinario il lavoro di Phil Selway nella parte più frenetica di “The Gloaming” e della magnifica “There There”(con Ed O’ Brien alle percussioni), entrambe estratte da “Hail To The Thief” (2003). In primissimo piano poi sono le chitarre di Thom e di Jonny Greenwood nell’apertura di “Jigsaw Falling Into Place”, nell’acustica “Faust Arp” e nella potente “Bodysnatchers”. Si rallenta e si precipita, tra le vertigini e i vortici di una modernità fosca e mesta, salutata con un addio che fa gelare il sangue in “Videotape”, scandita dal piano di Thom e dagli ultimi cupi e drammatici versi, che riecheggiano commossi nel prato dell’Arena, sintonizzato sulle onde emotive di un concerto denso di sentimenti vischiosi. Yorke, tenero e buffo folletto in bianco e rosso, dà il meglio di sé nei vocalizzi lancinanti delle già ricordate “Nude” e “Dollars and Cents” o nelle interpretazioni intense delle inattese “A Wolf at the Door” e “2+2=5”, ancora tratte dal precedente album “Hail To The Thief”. Sussurra, urla, eleva il suo canto di cigno-anatroccolo non preoccupato dell’apparenza, che si lancia nei più improbabili balletti senza la benché minima preoccupazione delle percezione esterna dei suoi movimenti e della loro grazia, si contorce, socchiude gli occhi e si dimena come in preda ad un incubo, fa risuonare improvvise risate. Folle come tutti i veri geni, allunga la chiusura del secondo encore con una travolgente “Paranoid Android”, emblema di quella schizofrenica compresenza degli opposti che anima dall’interno le canzoni della band. Articolo letto 5303 volte Riferimenti Web
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