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Recensioni
Pubblicato il 21/08/2006 alle 20:01:24
Pearl Jam - Ten (SonyBMG – I Wanna Rock!)
di Ambrosia J.S. Imbornone
In offerta fino al 31 agosto al prezzo di euro 10.90 e in promozione speciale presso la Feltrinelli il primo viscerale e tormentato album dei Pearl Jam, un capolavoro entrato di diritto nella storia del rock.

Agosto 1991-2006: sono passati quindici anni dall’uscita del primo, leggendario album dei Pearl Jam, “Ten”, pubblicato negli States il 27 agosto dalla Epic Records e in Europa nel febbraio seguente. Nato dalle ceneri dei Mother Love Bone del chitarrista Stone Gossard e del bassista Jeff Ament, il gruppo era stato completato da Eddie Vedder, carismatica voce e co-autore, qui soprattutto in veste di paroliere, e Mike McCready (chitarra solista). Primo batterista della band fu Dave Krusen, che tuttavia lasciò il suo posto prima dell’effettiva pubblicazione del disco e fu sostituito dal 1992 al 1994 da Dave Abruzzese. L’esordio dei Pearl Jam è un fulminante, autentico capolavoro, che entra subito di diritto nella storia del rock internazionale e ha venduto finora, nei solo Stati Uniti, oltre 9 milioni di copie. Le sue undici canzoni, completate nell’edizione europea da tre bonus tracks, sono un pugno nello stomaco: viscerale, tormentato, immediato e drammatico, “Ten” è l’ideale romanzo di una gioventù bruciata o inaridita dalla vita, che si lecca le sue ferite, ma ha ancora la forza di gridare la sua rabbia e il suo dolore. Primo singolo della band è “Alive”, primo capitolo della tragica “Mamasan Trilogy”, in cui i ricordi dell’infanzia travagliata di Vedder e della scoperta della morte del padre naturale vengono trasfigurati in un’immaginaria relazione morbosa tra una madre e un figlio troppo somigliante al genitore, confuso e devastato dall’incesto e desideroso,inesorabilmente, di sentirsi ancora vivo, pur senza sapere di meritare di esserlo. Le strofe, intrise di un’apparente, allucinata serenità, sono costruite da sapienti riff di chitarra elettrica, che diventeranno il marchio di fabbrica di PJ e qui emergono sullo sfondo della chitarra acustica. Secondo episodio della trilogia è la traccia d’apertura, “Once”, che, dopo la suspence creata dall’intro di percussioni, regala all’ascoltatore un bruciante climax emozionale, sostenuto dall’energia esplosiva dell’interpretazione di Vedder, che narra l’inarrestabile caduta del ragazzo, diventato ormai un serial killer. L’epilogo di questa storia oscura e lacerante era il carcere e l’esecuzione capitale di “Footsteps”, poi pubblicata solo come b-side di un altro brano che, come questi, traeva spunto da cruenti episodi della cronaca nera, in cui un esito violento soffocava una vita passata a cercare disperatamente di dimenticare gli abissi e le vertigini inquietanti di un’anima dolente e disorientata. Si tratta di “Jeremy”, firmata da Vedder e Ament, il cui basso a 12 corde apre e chiude il pezzo, caratterizzato da calibrate accelerazioni ritmiche di grande impatto ed efficacia; il ragazzo del titolo, trascurato estraneo in famiglia e introverso adolescente sottovalutato dai coetanei, la cui aggressività repressa esplode drammaticamente all’improvviso, è Jeremy Wade Delle, sedicenne texano che si suicidò dinnanzi agli occhi attoniti dell’insegnante e dei compagni di classe. Il frontman del gruppo che con Alice in Chains, Soundgarden e i Nirvana di Kurt Cobain creò il movimento grunge in quel di Seattle, parlando di questo pezzo non ha esitato a sottolineare come il suicidio sia una vana e amara vendetta che ha il vago sapore della sconfitta, laddove la vera vittoria sarebbe trovare la forza di accettare le sfide di un quotidiano lastricato di sofferenza e umiliazioni e dimostrare di saperle superare. Mirabile gioiellino dell’album è poi la straordinaria “Black”, perla di un dolente intimismo che la band si rifiutò di dare in pasto al mercato discografico in qualità di singolo: al costante proliferare di “deperibili” quanto commerciali ballate del pop più plastificato che inneggiano all’amore eterno con stucchevole sicurezza, Vedder oppone qui una lancinante e immortale rock-ballad dell’eterno disamore. I ricami delle chitarre dialoganti, ricche di un pathos discreto, diventano nel finale un grido disperato, doppiato dal piano di Rick Parashar (co-produttore del disco con i PJ) e condensato da Eddie nella domanda senza risposta sul futuro negato irrimediabilmente al suo amore. Memorabili gli assolo di McCready nelle indiavolate “Why Go?” e “Porch”, mentre un’atmosfera sospesa ed enigmatica introduce e accompagna il cammino simbolico nel pietrificato e surreale giardino della bellissima “Garden”. L’intrecciarsi di canto e controcanto, con i limpidissimi acuti di un Vedder in gran spolvero, arricchisce di echi onirici invece “Oceans”, in cui Tim Palmer, autore del missaggio del disco, usa come percussioni anche un estintore e uno spargipepe. Chiude il disco un pezzo introspettivo e autobiografico, la lenta, cadenzata e dolcissima “Release”, che si apre ad intensi crescendi drammatici animati dall’ansia e dalla sconsolata, eppur fiera speranza di potersi affrancare dal terribile giogo del dolore. Delle tre bonus tracks della versione europea dell’album degna di nota è soprattutto “Dirty Frank”, in cui la ritmica pare quasi un omaggio ai Red Hot Chili Peppers; era stato proprio d’altronde un ex RHCP, Jack Irons, poi nei PJ dal 1994 al 1998, a passare il primo demo della nascente band all’amico Eddie Vedder, allora cantante dei Bad Radio.
Che il grunge sia stato o meno un vero genere musicale, poco importa: qui pulsa l’anima di Seattle, l’anima dei Pearl Jam e in fondo anche l’anima del rock allo stato più puro.





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