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Recensioni
Pubblicato il 06/09/2005 alle 18:17:00
Anna Oxa: tutti i ritmi del mondo, tra impegno e misticismo
di Ambrosia J.S. Imbornone
Al concerto di Anna Oxa a Trani(BA)il 27 agosto c’era un’atmosfera intensa e sacrale, per immergersi nel fascino multiforme della musica etnica. E riflettere.

Al concerto di Anna Oxa a Trani(BA)il 27 agosto c’era un’atmosfera intensa e sacrale, per immergersi nel fascino multiforme della musica etnica. E riflettere.

A sinistra il porto, a destra la bianca cattedrale romanica di Trani, sobria e maestosa. Come un ponte gettato ad unire mare e terra, nel cielo, un semicerchio di luci. Al centro della stella formata dai fasci di luce, c’è lei. Albanese di origine, barese di nascita, ha la bellezza suadente, eppure ieratica e solenne, di una divinità indù. L’ennesima metamorfosi di un’artista eclettica/eccentrica che ha già cambiato pelle altre volte? No. Anna Oxa appare motivata e convinta in quello che fa. Immersa in un’atmosfera quasi misticheggiante, è concentrata sacerdotessa che non solo officia il rito di una musica di qualità, ma satura l’aria di riflessioni, esplicite e implicite, che suscitano naturalmente e sensatamente la pioggia di note e parole. Impegnata in un duplice tour, che intinge in salsa pop o etnica le sue canzoni, la Oxa lancia un messaggio molto efficace, l’universalità dei linguaggi musicali. Gli arrangiamenti del concerto etnico sono infatti una continua sorpresa, che tiene desta l’attenzione dell’ascoltatore attento, sfoderando in ogni brano sonorità e strumenti differenti. Ogni tradizione musicale viene accolta per la sua dignità e profondità e chiamata a dare spessore anche ai brani più popolari. Le hit di Anna acquistano così un sapore nuovo, un’intensità che le stacca dall’album dei ricordi, per mutarle in brani in divenire; un tocco di improvvisazione regala così alle canzoni il marchio dell’irripetibilità del live. Si comincia con un suono primigenio, l’ “om” sacrale delle campane tibetane della Oxa, che saranno essenziali in seguito nel brano “Mantra”, e subito si capisce di non essere ad un concerto qualsiasi. Si ascoltano i singoli radiofonici di successo, ma la patina di rigorosa classicità o di irregolarità moderata, più o meno d’obbligo a Sanremo, si dissolve d’incanto. “Un’emozione da poco”, firmata da Ivano Fossati e da Guido Guglielminetti (poi fedele bassista, amico e collaboratore di De Gregori) e portata dalla Oxa sul palco dell’Ariston nel 1978 a soli 17 anni, segna l’apertura del concerto con un’interpretazione struggente. Immancabile la delicata “Quando nasce un amore”(Sanremo 1988) di Ciani e della premiata ditta Cogliati-Cassano, artefice delle più belle canzoni di Eros Ramazzotti, materna e dolce “Ti lascerò”(Sanremo 1989), impreziosita dal violino e dalle percussioni, in sordina l’avvio di “Donna con te”: Anna la presentò alla platea sanremese del 1990 con i Kaoma, che sdoganarono all’epoca la lambada, ma contraria ad un facile sfruttamento dei ritmi commerciali, nel suo tour world ora preferisce dare a questo pezzo un sound più elaborato, costruito da una splendida linea di chitarra di Lorenzo Frizzera, i cui arpeggi danno il via ad un crescendo musicale al ritmo del cajon del percussionista Marco Fadda. Se “L’eterno movimento” presentata alla storica kermesse nel 2001 si tinge qui di jazz, per terminare con una coda quasi reggae, la canzone regina del Sanremo 1999, “Senza pietà”, invece, è aperta dal suono ipnotico del didgeridoo, un particolare strumento aborigeno suonato con maestria dal polistrumentista australiano Phil Drummy, già collaboratore di PFM, Eugenio Finardi e Antonella Ruggiero, che durante il concerto passa con stupefacente sicurezza dal percuotere le corde di un santur iraniano a suonare la cornamusa, dal sedurre con le note di un sassofono a destreggiarsi con vari tipi di flauti, da quello irlandese a quello traverso. In “Tutti i brividi del mondo”, sulla base fascinosa del sitar di Frizzera, Drummy riesce a trarre note evocative persino da una comune diamonica. In una scaletta multietnica non mancano, a fianco degli eleganti pezzi jazzati, nemmeno brani sudamericani, che confermano che la sensibilità musicale della Oxa è affine a quella di Fabio Concato, compagno di strada nel comune tour 2004: è il caso per esempio di “Meu Bem Querer” del brasiliano Djavan e di “Gracias a la vida” della cilena Violeta Parra, in esilio in Italia al tempo di Pinochet. Le canzoni che però scavano il segno più profondo nella platea sono le più insolite, ovvero un brano tradizionale albanese e “Afro umba rumba”. Il primo pezzo, dopo suggestivi vocalizzi, scioglie la malinconia del suono del flauto albanese, testimone e simbolo – secondo le parole di Anna – delle occupazioni e dominazioni subite dalla sua terra d’origine, in un canto che trasporta magicamente in un antico mondo di pastori. Il secondo brano è invece la “danza dell’uomo nero”, un’esplosione irresistibile di ritmo, che prima pulsa irrequieto, poi invade prepotentemente con la forza d’urto di un’impetuosa onda liberatoria, a cui sono affidate le sofferenze subite a cause dalle discriminazioni e le speranze di riscatto di quel mosaico variopinto che sono le popolazioni africane. La Oxa tra cuscini e incensi si adagia scalza o balla, rapita dall’impatto emozionale della sua musica. L’empatia con il pubblico, o almeno con la fetta di platea in grado di seguire le evoluzioni mirabolanti degli arrangiamenti e di apprezzare l’intrecciarsi delle lingue e l’incalzare delle basi ritmiche, non è però ricercata solo con il potere irrazionale della musica. Anna legge riflessioni poetiche, ricorda l’11 settembre con un’accorata “La panchina ed il New York Times”, accenna ad ideali di uguaglianza e al diritto di tutte le etnie ad usufruire di pari diritti e dà una buona prova di attrice. Se nel tour “Concato Oxa e viceversa” era in scaletta la gaberiana “Io non mi sento italiano”, questa volta la Oxa recita infatti in modo mirabile un aggiornamento di “Bambini G.”, l’ironico e graffiante brano di Gaber/Luporini che ben esemplificava le sperequazioni sociali. L’autore questa volta è il Giobbe Covatta de “L’incontinente bianco” e i piccoli protagonisti l’italiano Giangi e l’ugandese Kadua. Se il bambino nato tra lussi e comodità nel Bel Paese è contento di essere nato con tanti capelli, di avere una bella mamma, di avere una speranza di vita forse di oltre 80 anni, al neonato venuto alla luce in Uganda non resta che rallegrarsi di avere una mamma, ma non avere l’Aids, e affrontare una vita che “è tutta una speranza”. Si sorride amaramente, dinnanzi alle parole tragicamente realistiche del comico. E si esce dalla piazza con tanta voglia di un impegno sociale, per lottare nella vita concreta per quella parità tra culture, razze e popoli che il mondo musicale realizza facilmente e amabilmente, amalgamando sonorità che rivelano tutte la stessa folgorante, penetrante bellezza.

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