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Recensioni
Pubblicato il 18/04/2006 alle 00:50:32
Placebo – Meds (EMI)
di Ambrosia J.S. Imbornone
Con la loro ostinata coerenza stilistica, i Placebo descrivono l’immobile parabola dei rimpianti in un rock torbido ed immediato, carico della violenza e della dolcezza del ricordo.

Giunti al quinto album di inediti, i Placebo probabilmente non possono attribuire orgogliosamente alla loro musica il pregio di uno sperimentalismo originalmente evolutivo; c’è da riconoscere loro tuttavia il merito di aver fatto della propria quasi irrazionale coerenza una cifra stilistica, che consiste proprio nella fine capacità di immergersi, senza scomporsi, negli abissi melmosi di animi in fase di stallo e nel rendere movimento musicale l’imbelle affondare di tali personaggi nell’immobilità. Pertanto al trio inglese capeggiato da Brian Molko forse non si può realmente chiedere di evolvere, perché le loro canzoni immortalano solitamente sentimenti privati a priori di un’autentica possibilità di sviluppo che non sia la catastrofe disperatamente rimandata. Con “Meds” quello che è forse uno dei gruppi più auto-indulgenti del mainstream (in cui la band naviga pur sempre nell’appartata ed eccezionale solitudine del fenomeno alt-glam) non solo infatti non rivoluziona il proprio percorso musicale, ma si può dire che volga lo sguardo al passato. Musicalmente l’elettronica lascia nuovamente maggiore spazio al genuino e classico irrompere di un rock materiato di chitarre elettriche implosive; tematicamente, se nel disco-capolavoro della band, l’addictive “Without you I’m nothing”, gli scatti irrequieti, la sensualità sregolata, le fitte maglie di una malinconia ulcerosa e tragica, in grado solo di ritardare una sconfitta già presagita, erano quelli di un io che guardava al presente, i protagonisti dei versi di questo lp vogliono rendere possibili e perpetrare, ancora una volta senza soluzione di continuità, i sogni di un tempo, riconoscendo di essere irrimediabilmente “stuck on rewind”, come recita “Follow the Cops Back Home”. Nelle storie narrate da questi brani il tanto temuto strappo spesso si è già consumato e si può solo tentare di reperire un’efficace “terapia” per le sue conseguenze, mentre ci si attacca febbrilmente ai ricordi. Le medicine del titolo, infatti, anziché arrecare un senso di salvezza e guarigione, rammentano con dolente insistenza le malattie dello spirito e pervadono l’intero album di una sensibilità anestetizzata e narcotizzata; essa è scossa dal suo torpore indotto solo dal dilagare irruente della rabbia o da un interrogarsi e un meditare inquieto, intessuto di micidiali riff chitarristici e crescendi ritmici, oppure ancora si culla nei paesaggi emozionali liquidi di sogni intermittenti e pensieri vischiosi, retrospettivi, nostalgici che hanno come unica fonte di speranza i rimpianti più disperati. Nella nevrotica e nervosa title-track il viluppo di chitarre distorte e ipnotiche e il pulsare torbido del ritmo descrivono bene il deragliamento delle emozioni e lo stordimento chimico-psichico provocato dal micidiale cocktail “the sex, the drugs and the complications”, cantato dall’enfasi sensuale dell’amica VV (Alison Mosshart) dei Kills, ed amplificato dalla grinta drammatica di Molko, ma anche lo spaesamento confuso di chi prova un ambiguo senso di paura e attrazione per l’anestetizzazione della memoria, che cancella il passato e svuota ancora più di senso un presente di solitudine (e incomunicabilità: v. “I’m in a crowd and I’m still alone”, in “One of a Kind”). Gli episodi più dark del disco sono il futuro singolo estivo “Infra-Red”, con tanto di ossessivo riff a simulare l’ambulanza del bridge e una conturbante linea di basso del co-fondatore della band, lo svedese Stefan Olsdal, e l’altrettanto minacciosa “Broken promise”, eseguita in un memorabile duetto con Michael Stipe, carismatico frontman dei R.E.M. Questo canto della vendetta annunciata, dopo un’intro piano-voce (quella di Stipe) già percorsa dai brividi di un’inquietudine spettrale, esplode nell’infuocato pathos risentito del bridge gonfio di chitarre elettriche, in cui la furia della voce stridente di Molko si sovrappone alla voce più ruvida e profonda dell’artista di Athens; è a lui che tocca mirabilmente contrappuntare il noise chitarristico, la batteria martellante di Steve Hewitt e la lugubre solennità della tastiera con un perentorio “a promise is a promise”, che riecheggia come una maledizione. Stipe non si misurava con camaleontici cambi di ritmo al cardiopalmo dai tempi di “Leave” (in “New Adventures in Hi-Fi”), cioè, a conti fatti, da un decennio, a riprova di quanto i Placebo siano deliziosamente anacronistici. La loro formula musicale però suona meno scontata ora di qualche anno fa: tra new-acoustic e lo-fi indie, i lunghi assoli post-rock e le schitarrate punk e nu-metal più commerciali, in fondo il vigoroso sound rock alla Placebo è in via d’estinzione o è attualizzato solo laddove antenati ed epigoni strizzino l’occhio alla new-wave e ai Cure. Senza rincorrere le mode del momento, nella sua intransigenza stilistica la band suona insomma più autentica di tante altre. Tuttavia, seppure cerchi di rinverdire i fasti del passato, qualcosa nel frattempo è cambiato: rispetto allo storico e succitato disco del 1998, i sentimenti che ispirano i testi di “Meds” sono senz’altro più atteggiati e manierati.
L’impatto sonoro del disco, prodotto da Dimitri Tivokoi (Kill the Young, Goldfrapp) e mixato da Flood (Depeche Mode, U2, Smashing Pumpkins), è molto immediato, perché gli arrangiamenti in modo attento e studiato alternano un’aggressività graffiante, dotata di facile incisività, alla tragica dolcezza delle ballate e alle atmosfere sospese e rarefatte dell’ottundimento dei sensi, annebbiati e stanchi dopo aver percorso una “road to perdition” che lascia dentro uno spaventoso vuoto, impresso nel tessuto musicale da struggenti tocchi di sintetizzatore. Essi sono in grado di rendere surreali persino lo stridere delle corde della chitarra; è il caso di “In the Cold Light of Morning”, contenente le confessioni di “a loser”, che in “Drag” sono frutto dell’accettazione quasi orgogliosa di sé, ma che in generale non possono però che caricarsi di una sofferenza non sempre intensa e vivida ma spesso necessariamente mediata dalla perizia e dai trucchi del mestiere. Tuttavia i Placebo non si fanno tentare dalla teatralità a tratti gotica e melodrammatica che fa capolino qui e lì negli arrangiamenti dei Muse innamorati di Rachmaninoff; gli archi nel disco non seducono per esempio il gruppo con la tentazione della sinfonia rock, ma sono addomesticati ed eletti a straziante voce di controcanto del ringhiare convulso delle chitarre e del basso, esibito in brani come “Space Monkey”. Non manca però il romanticismo con “Pierrot the Clown”, che tra le sue pennellate acustiche suona trasognata ed eterea come un delicato carillon e canta la dipendenza dolorosa dalla più potente delle droghe, l’amore. Forse non c’è niente di innovativo in “Meds”, ma la visceralità dei sentimenti cantati, seppure espressi in modalità stilizzate e collaudate, squarcia i veli delle convenzioni commerciali per affermarsi come unica cura possibile per la crisi d’astinenza affettiva di ragazzi che crescono senza le certezze che possano rendere autenticamente uomini.

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