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Interviste
Pubblicato il 03/07/2007 alle 16:25:03
L’estate musicale italiana secondo Ernesto De Pascale: istruzioni per l’uso.
di Jacopo Meille
Ernesto De Pascale: giornalista, scrittore, musicista, voce storica di Radio Stereo Notte, record man e talent scout. Per lui la musica e il music business in generale non conoscono misteri.

In questo inizio torrido d’estate, con l’Italia letteralmente presa d’assalto da festival, rassegne ed eventi musicali, abbiamo sentito la necessità di fare con lui il punto della situazione per comprendere meglio le dinamiche e le strategie che muovono il meccanismo dell’intrattenimento musicale.
Lo abbiamo incontrato di ritorno dal Mantova Musica Festival, a cui ha partecipato in qualità di giurato, reduce dalla dodicesima edizione del programma radio Il Popolo Del Blues in onda sulle frequenze di
Popolare network/Controradio e già alle prese con la prossima edizione del Premio Ciampi e del RockContest.

Ernesto esordisce in esclusiva per noi, con una riflessione, subito importante...
I premi stanno prendendo il posto della discografia. Sono una chance importante per gli artisti, per capire se quello che stanno facendo ha delle controprove o no. Visto che i premi sono poi frequentati da giornalisti, è chiaro che si partecipa nella speranza di piacere a loro oltre che al pubblico per strappare una buona recensione che non vuol dire avere un risultato, ma può aiutare per essere richiamati al premio successivo, l‘anno dopo, dopo sei mesi, per migliorare il curriculum. E le motivazioni...

Mi sta forse confermando che anche per i festival è stato adottato il meccanismo delle apparizioni TV in cui se partecipi ad un programma è quasi garantito che sari poi invitato ad un altro?
Esatto. E così anche un festival tira l’altro. Ed i festival utilizzano uffici stampa sempre più forti, perché un festival di 4 giorni in cui ascoltare musica gratis ed assistere a presentazioni di libri non dispiace a nessuna amministrazione e crea un buon indotto, poiché il pubblico di riferimento è quello adulto, al quale si mischiano e si aggiungono giovani e passanti. In Italia poi la formula del festival ha preso campo con forza; sono sempre più le manifestazioni come quella di Mantova della letteratura, o quello di Sarzana della mente in cui poi si parla anche di altro e dove la musica non manca mai. A Cremona si fa il festival della poesia e si invitano moltissimi artisti… allora diciamo che in Italia si stanno creando delle fasce di artisti da invitare. Artisti televisivi classici come Gigi D’Alessio o Renato Zero, istituzionali come Lucio Dalla e Gianni Morandi; poi c’è l’ospite di qualità come Vinicio Capossela o De Gregori, che in televisione non ci va o ci va poco e, seconde me, fa bene a non andarci, fino ai minori di qualità come Mimmo Locasciulli. In mezzo a questo si infiltra la figura del comico musicista, come Bebo Storti, Crozza, La Banda Osiris, Vergassola. Quando al comico musicista poi si accosta l’ospite di qualità di cui sopra nasce il teatro canzone: ecco quindi pronto il Festival di Viareggio dedicato Gaber.

C’è un festival che si sente di menzionare per la costanza con cui ha lavorato nel corso degli anni?
Trasimeno Blues. Ha un proprio valore perché ha trovato in dieci anni, grazie ad un bravo direttore artistico, delle strade particolari e originali; c’è Il Comune che fa blues ma solo con artisti italiani; ce n’è un altro che fa una mostra quest’anno dedicata all’organo hammond e ospita il concerto del James Taylor Quartet, c‘è quello che punta a una serata più “danzante“. C’è l’innesto, che spero di aver contribuito ad introdurre, delle componenti più folk della musica blues. Il blues non sono solo salti di 1°, 4° e 5° grado e la musica folk inglese ha le stesse redici del blues. Se ascolti ‘John Barleycorn Must Die’ è una storia blues alla stregua di ‘Stagger Lee’. Trasimeno riesce a vivere delle sue particolarità.
I festival molto grandi un po’ perdono questa componente perché se salta loro un’artista non possono sostituirlo facilmente, devono mettere un nome di richiamo. Così facendo rischiano di fare un gran guazzabuglio e a volte tentano di rimediare con le tavole rotonde ma ad essi, così grossi e strutturati, non possono bastare più. Ci vuole più formazione a monte.


Qual è, secondo lei, il principio su cui deve costruirsi un festival?
Il festival deve avvicinare delle comunità a dei luoghi a delle geografie. C’è poi da precisare che un festival non ha bisogno del grande evento a tutti i costi poiché esso non è una rassegna, ossia una “collezione” di concerti concentrati in un giorno o più in cui, come nel caso della rassegna di quest’anno all’Auditorium di Roma, possono esibirsi Jesse McCartney un giorno e Jan Garbareck il successivo. Questo sfaccettato mondo dei festival e delle rassegne, sta prendendo il posto della discografia. Non voglio dire che gli artisti saranno tutti un po’ più poveri, ma che dovranno diventare tutti un po’ più attenti, iniziando a pensare seriamente che per pubblicare un album ci vogliono vere motivazioni ed un senso. È ora che alcuni di essi inizino a sentire una maggiore responsabilità artistica.

Secondo lei possono coesistere diverse strategie per far sì che un festival mantenga una sua identità?
Questo è possibile, ma l’identità deve sempre corrispondere ad un’idea, a una riunione di menti pensanti e consulenti, ad una “reason why”, ad un pensiero forte, caratterizzante. A uno stile, quello che molti festival non hanno. Non basta firmare una produzione. Il nome, il brand, questo è ciò che identifica il Pistoia Blues. L’identità di Trasimeno Blues è ciò che fa, la certosinità; quella di Mantova sono gli organizzatori e la loro storia collettiva e singola; l’identità del Premio Ciampi è Piero Ciampi e uno stile tutto livornese nel pensare, molto genuino, singolare, naif ma unico. L’identità del premio Tenco è la parola “club” che definisce la volontà di un gruppo di amici di presentare artisti diversi anche se le logiche di quel gruppo sono cambiate con la scomparsa dell‘amato Amilcare Rambaldi.

Ce la farà la musica a superare questo periodo di gadgettizzazione? A superare la fine dell’idea del supporto d’ascolto? O l’Italia dei festival vorrà sempre più assomigliare al nazional-popolare dei Pippo Baudo ancora una volta alla guida del Festival di Sanremo? La musica potrà recuperare la sua vera identità etica, se ancora ne ha una, attraverso l’esperienza della piazza?
La musica non può essere migliore delle persone che rappresenta e la gente della musica non può essere migliore della musica che propone. Mi pare che il senso della riflessione sia chiaro.
Porto un esempio sulla mia pelle e su quella di altri: All’Indipendent Music Meeting di Firenze, una manifestazione vissuta dieci anni a Firenze per tutti gli ottanta e oltre, quando fu chiaro che le etichette indie volevano solo flirtare con la major, facemmo tutti cartella e senza neanche troppi rimpianti. I rimpianti sono arrivati dopo, vedendo ciò che sarebbe accaduto a solo 100 km da Firenze. Tanti bravi operatori cresciuti negli ottanta sono stanchi, oggi hanno cinquant’anni e vogliono vivere la vita migliore possibile, hanno messo a tacere tanti loro principi, li vuole biasimare? Come si fa? Chi di loro rischia più di tasca propria? Ci pensa direttamente o indirettamente l’istituzione e questo vuol dire vivere un senso di condivisione con quelle e sapersi barcamenare da corrente a corrente, da fronda a fronda. Ciò crea un legame anche se non esplicito. Quando poi l’alibi della formazione – sempre più importante oggi - si chiama “rassegna di emergenti”, senza strutture né contenuti forti, allora mi vengono i brividi. Dove andranno a finire questi ragazzi il giorno dopo? Torneranno, ahimé, quasi tutti nel mare magnum del dubbio e delle incertezze. E, per quel che riguarda gli eventi, la piazza? La piazza è la gente e la gente è il vero ago della bilancia. Ma l’evento ha preso il sopravvento su una schietta e sincera valutazione dei contenuti e la piazza oggi tende a essere sempre più di bocca buona, sempre meno capace o desiderosa di giudicare.
Manca una figura importante, quella del controller, una persona super partes che abbia per ruolo il dare una valutazione generale e specifica,ad ampio respiro ma allo stesso tempo competente, su tutto ciò che accada dando dei quozienti e facendo riferimento a ciò che accade altrove per non evitare doppioni. Il controller deve però esercitare un potere, non può solamente dire “va bene o non va bene; mi piace o non mi piace” perché magari messo da qualcuno; il controller, per come lo vedo io, dovrebbe avere lo stesso potere che hanno - per esempio - le persone a capo di società di Venture Capital, che lavorano a ridosso delle aziende, in grado di rimuovere i direttori ed i presidenti delle aziende stesse per spostarli in fasce d’interesse simili, e creare così un diverso giro di capitali. Sono rischi ma sono anche una delle poche possibilità sul mercato di risvegliare la professionalità a volte sopita dalla consuetudine. Questo non accade e non può accadere perché le società o le associazioni nate per fare e gestire musica dentro i meccanismi culturali servono a rifocillare i propri interessi e non sono in grado di immettersi nel mercato vero. Esse sono tendenzialmente chiuse poiché in primo luogo nate per proteggere loro stesse. Il controller dovrebbe esistere ma con delle vere mansioni
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