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Pubblicato il 27/05/2006 alle 21:19:23
Esplorazione dell’io e risveglio delle emozioni: Pacifico si racconta
di Ambrosia J.S. Imbornone
Il cantautore milanese domani porterà la sua musica ad alto tasso emozionale sul palco del Mantova Musica Festival. Ecco cosa ci racconta dei suoi pezzi, delicatamente autobiografici o sapientemente ironici,delle sue collaborazioni e di tanto altro.

Gino “Pacifico” De Crescenzo è in radio con il secondo singolo estratto da “Dolci frutti tropicali”, il suo terzo album, il primo inciso per la Radiofandango diretta da Stefano Senardi, che fa capo alla Fandango di Domenico Procacci. Dopo “Dal giardino tropicale”, ci aiuta a settare l’umore della giornata con la corroborante sveglia di “Caffè”, un delizioso e gustoso duetto con Petra Magoni.
Domani si esibirà al prestigioso Mantova Musica Festival, per poi regalare ai suoi fan un tour estivo ricco di quelle emozioni che da sapiente arrangiatore sa potentemente evocare sfruttando al meglio il talento dei suoi musicisti. Ecco cosa ci ha raccontato della manifestazione di Mantova, della musica italiana, del suo lavoro di cantautore e di autore, del suo passato negli eclettici Rossomaltese e della sua raffinata e delicata musica da solista.

Ambrosia: Domani parteciperai al Mantova Musica Festival, dedicato al tema “Italia, Italie”. Con il crescente spazio occupato anche da generi in parte “esterofili” come l’indie o l’hip-hop, secondo te la musica italiana è davvero ormai un complesso insieme di tendenze eterogenee, lontane dal canone classico melodico e nazional-popolare che ha spesso furoreggiato a Sanremo?Oppure restano dominanti nel nostro paese gli immancabili tormentoni pop?

Pacifico: Forse anche attraversando i vari generi musicali restano delle caratteristiche che comunque identificano le canzoni come prodotto italiano, ovvero frutto della storia e della cultura italiana, anche se passano attraverso arrangiamenti o accorgimenti che le avvicinano alla musica internazionale. E’ vero che adesso la fruizione della musica, la possibilità di vedere tanti concerti, il ruolo benefico (e non solo malefico, come spesso si sottolinea, evidenziando il rischio dell’omologazione) di canali televisivi come Mtv, insomma ascoltare tantissime cose dagli altri paesi, in particolare ovviamente anglosassoni, ha influenzato il modo in cui si scrive la musica in Italia, ampliando gli orizzonti. Poi magari i grandi numeri li possono fare solo le canzoni che presentano caratteri più popolari…In questo senso trovo molto interessante suonare a Mantova, perché mi viene da pensare che l’attenzione per generi come l’indie magari a volte nasce in persone che hanno diversi libri sul comodino; però questo non lo vedo necessariamente come un titolo di merito. I dieci milioni di persone che acquistano dischi di una star pop italiana come Ramazzotti forse hanno solo un approccio più emotivo nei confronti della musica, piuttosto che indirizzato culturalmente. Questo mi confonde e mi lascia sempre perplesso. Sono sicuro che a Mantova si saranno anche molte persone che magari vanno al Festival della Letteratura e quindi hanno una certa abitudine alla lettura, un’attenzione anche per progetti minori, per scrittori mediorientali e quindi anche nella musica cercano di scoprire progetti particolari. Però alla fine a volte rifuggono dalle emozioni immediate che offre il pop tradizionale e sono alla ricerca delle contaminazioni musicali, mentre comunque i grandi numeri restano appannaggio del tormentone o della grande melodia.

A: Tra i direttori artistici di questa manifestazione c’è Vittorio Cosma, con cui hai lavorato ai tempi del primo lp degli eclettici Rossomaltese, “Santantonio” (1993), ricco di ritmi sudamericani, energia e assoli di chitarra, e poi per la colonna sonora di “Colpo di luna” (1995), a cui hai partecipato come chitarrista. A proposito della tua ex-band, di cui sei stato per quasi dieci anni il chitarrista e l’autore delle musiche, il vostro terzo album non è mai sbarcato sul mercato discografico…A chi ti segue da allora potrà interessare questa domanda: pensi che questo lp possa essere pubblicato in futuro?

P: Non credo, poi non si può mai sapere…L’album era sicuramente frutto di tantissimo lavoro di Luca Gemma [ndr: cantante della band, autore dei testi e fondatore con Gino del gruppo], che ha pubblicato un disco da solista [ndr: “Saluti da Venus”, Ponderosa, 2004] e ora ne sta preparando un altro, ma era anche in realtà frutto del lavoro di un gruppo, del fatto di avere una cantina sul Naviglio a Milano, che ci eravamo realmente costruiti con le nostre mani. Ricordo ancora il furto dei mattoni da un cantiere, realizzato mentre uno di noi distraeva il capocantiere…Quel disco era insomma l’evoluzione di un percorso già iniziato, un album etnico, secondo quello che era il nostro modo di interpretare la musica etnica, un lavoro che mi sembrava molto bello. Però è impossibile ricostruire il gruppo, c’è stata veramente una diaspora. C’è chi si è sposato e vive sugli Appennini, di un paio non ho proprio più notizie. Ho provato a chiedere ad amici comuni, ecc. ma non sono riuscito a sapere che fine abbiano fatto! Credo che sia molto difficile che possiamo rimettere le mani ancora su quel materiale…

A: Dal tuo passato, passiamo ora al presente. Dal 19 maggio è in radio il tuo nuovo singolo, “Caffè”, il duetto con Petra Magoni, in tre versioni, quella dell’album, il remix di Fred Ventura ed Enrico Colombo e la versione di Paolo Gozzetti. Sarà possibile acquistare in download legale le due radio-edit inedite?

P: Credo di sì. Nel mio sito, che aggiorno nottetempo, metterò tutti i link ai vari portali. E’ possibile trovare le mie canzoni in tutti i siti, quindi le tre versioni saranno immediatamente disponibili dovunque tranne su iTunes. Il sito è estero e Radiofandango, che non è una major, non vi è ancora presente, ma si tratta di avere pazienza solo per poche settimane.

A: Questo brano è stato scelto come singolo per le proprietà ammalianti della grazia della straordinaria voce di Petra o anche per puntare l’accento sulla serenità del disco?Mi sembra che comunque tale serenità e solarità passi attraverso la consapevolezza sofferta delle nuvole, delle tempeste, dei limiti e di quella stessa precarietà che era al centro del tuo secondo album, “Musica leggera”, ma è anche accolta come condizione per gli interrogativi sul futuro di questa canzone…

P: Sì, il tema è più o meno sempre quello. La canzone ritrae un piccolo momento di pausa che sembra un po’ l’attimo prima di gettarsi con l’elastico da un ponte o rituffarsi nel polverone. Soprattutto per chi ha un lavoro dipendente e magari deve uscire presto la mattina, il momento del caffè è l’ultimo istante di calma della giornata con l’incertezza di quello che sarà, perché si ha un punto di partenza e si può solo immaginare un punto di arrivo, senza sapere come e se verrà raggiunto. Allora ritornano comunque i temi ricorrenti delle mie canzoni, anche se in questo caso ho pensato esplicitamente a riferimenti come ad esempio i Radiohead e a quelle loro canzoni che ti sembrano serene, ma che nascondono al di sotto della superficie un atteggiamento non dico timoroso, ma quanto meno dubbioso e fragile. Mi piaceva l’idea di trovare un brano con un suono molto sereno, perché mi sono reso conto che ci sono delle canzoni che, ascoltate all’alba, quando hai forse le difese intellettuali più basse, sono perfette. La mattina, magari durante un viaggio, ti emozionano anche brani che ascoltati in altre ore della giornate non apprezzeresti. Per questo tipo di effetto e di suono Petra ha un ruolo determinante proprio con la grazia della sua voce; inoltre questo singolo ci sembrava la canzone più adatta per sopportare in modo dignitoso l’onda d’urto dell’estate. In realtà questa sarà un’estate fortunata con l’uscita degli album di Samuele, della Consoli, ecc. Però comunque questo brano ci sembrava quello che ci potesse consentire di uscire indenni dall’invasione radiofonica dei tormentoni estivi dei prossimi mesi.

A: Di “Dolci frutti tropicali” è stato messo in evidenza dalla critica,anche a volte ingigantito,il carattere solare, laddove invece ai tempi dell’intensa e ipnotica “Solo un sogno” si spendevano tante parole sul topos di Amore e Morte presente in un brano a tratti giudicato anche un po’ cupo…Ricordo che un giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno disse scherzosamente che il verso “Sfila la lama dalle carni” in sala stampa a Sanremo era diventato quasi una parola d’ordine per un risveglio pulp. Hai mai pensato di doverti quasi affrancare nei singoli successivi dall’immagine di cantautore-intellettuale un po’ serioso che all’epoca ti fu cucita addosso, tuo malgrado, durante il periodo di preparazione pre-sanremese al CET?

P: Beh [ride], è quel che succede con quel tipo di comunicazione che la televisione necessariamente deve fare e che con me fa molta fatica a fare, perché i canali di trasmissione dei video come Mtv, che pure in alcuni casi mi hanno mandato in onda, fanno una programmazione quotidiana di grandissima gioventù, con ballerine, gruppi molto giovani, con certi tipi di testi e tematiche... Cantautori anche più affermati di me o anche alcuni nomi internazionali fanno moltissima fatica ad inserirsi, o quanto meno quelli non sono per loro i canali più appropriati. I cantautori in effetti tradizionalmente non li vedi quasi mai in televisione; è sempre stato così: li trovi sempre nei teatri o nei locali piccoli. E’ raro che la televisione possa essere il modo più adatto per comunicare quello che fanno. Pertanto, usciti da lì [dal CET e da Sanremo], è stato abbastanza automatico attenuare quell’aura intellettuale. Certamente nella scrittura tutto dipende dalla volontà di esplorare o meno certe zone del proprio io; visto che in fondo le canzoni passano dai sentimenti, mi stupisce sempre quando si cercano, come accadde per “Solo un sogno”, connessioni e fonti di ispirazione più intellettuali, perché per me per esempio quel brano era un personalissimo grido di dolore, espresso in quel modo, che passava però assolutamente dalla viscere. In quel disco c’era infatti un continuo richiamo al corpo. Nei miei album non c’è mai una citazione letteraria, non uso una chiave di lettura per pochi. Avere dei libri sul comodino per scrivere può diventare una modalità di selezione. E’ come per l’umorismo: se cadi su una buccia di banana fai ridere chiunque, mentre con una battuta di umorismo ebraico o citazionista fai una selezione tra chi capisce la fonte e chi no. Io, anche se magari le cose che faccio possono essere comprensibili ugualmente per pochi [gli scappa un po’ da ridere per autoironia], parto sempre da un’ispirazione di assoluta emozione. E’ chiaro che però se in una canzone pop per dire che stai soffrendo usi parole come “Sfila la lama dalle carni” entri in un mondo particolare e meno tradizionale, però per me, anche per il futuro, visto che mi sto appuntando dei nuovi pezzi, l’accesso alle zone d’ombra è sempre molto naturale. Non escludo che un nuovo disco possa ancora avventurarsi meno in giardini tropicali e più in foreste pietrificate come in “Musica leggera”.Nel mio ultimo disco c’è stata invece una scelta minimale e quindi ho sentito che non volevo rimarcare degli schemi che sapevo già percorrere. Volevo cercare dei punti di vista piccoli, degli arrangiamenti minori anche se poi “L’inverno trascorre” e “Polifemo” sono i pezzi che preferisco del disco, perché la dimensione orchestrale e l’andamento dolente di quei brani mi attrae ed appassiona moltissimo. Però ho grande libertà, per ora non vedo la definizione di cantautore che esplora il lato doloroso della vita come una qualifica da cui sfuggire, anche perché ho tanti predecessori illustri e sono in ottima compagnia!

A: Hai alimentato tu stesso la tua fama di autore molto prolifico e spesso in effetti regali ai tuoi ascoltatori delle piccole perle inedite. Un esempio sono le due ghost-track del disco, “L’elefante” e “Made in Cina”. A proposito della prima, ti senti più simile a Polifemo, con il suo lirismo visionario e malinconico e il suo sguardo sospiroso verso il cielo, o a “L’elefante”, abituato a reprimere – dolorosamente – l’irruenza della rabbia?

P: Da un certo punto di vista, credo che una canzone come “Polifemo” sia paradossalmente più semplice da scrivere, perché ti liberi come con il famoso flusso di coscienza, lasciandoti trasportare anche a partire da uno spunto banale, come un’occhiata al cielo o agli alberi. E’ come un sogno, in cui ti lasci andare ad una visione che vedi improvvisamente e che è un rimescolamento della realtà. Poi è l’ultima traccia del disco, che è un po’ una canzone che arriva solo nelle oasi della fascia di canzoni protette. Per quanto riguarda gli inediti, ci sono anche alcuni pezzi non pubblicati che faccio ogni tanto nei concerti più che altro per generosità, anche se un inedito non fa mai felice il discografico, in modo da dare qualcosa in più a chi viene anche da lontano a sentirmi, visto che poi non faccio nemmeno tantissime date. “L’elefante” non ho resistito a non metterla nel disco non solo perché mi piaceva tantissimo il sassofono, ma anche perché il testo confessa questa difficoltà che devo affrontare, quella di accedere all’ira, una grande arma di cui mi resta in mano solo il fodero. Alcuni carissimi amici riescono a infuriarsi e sfogarsi in pochi secondi, mentre io devo passare sempre da percorsi più tortuosi per arrivare a tirare fuori la rabbia. Il brano insomma parla della mia timidezza, ma anche poi del rapporto complicato che ho con le emozioni più violente. Insomma la motivazione che mi ha portato a inserire questo pezzo è più personale che legata alla riuscita artistica del ritornello, per esempio. Le ghost-track non sono più una sorpresa per nessuno in fondo, ma comunque sono sempre simili alle ultime tracce. Io da ragazzo andavo sempre a cercare nei dischi le ultime canzoni, perché mi sembrava che fossero quelle in cui l’artista si concede un po’ di più. Il discografico nell’ultima traccia lo lascia più libero, gli dice: “qua fa un po’ quello che vuoi, tanto ormai il disco l’abbiamo venduto, se l’abbiamo venduto!”. L’ultima traccia insomma è una zona franca!

A: Eh sì, in effetti tante persone ascoltano le tracce in ordine e magari all’ultima canzone arrivano in pochi! Passiamo ora invece a “Made in Cina”. Questo brano porta il marchio di fabbrica della tua inconfondibile capacità di stemperare la sofferenza con l’ironia, qualità già esibita in brani come “Senza te” o “Un solo tempo”, che è in fondo fondamentale per la sopravvivenza. Alleggerire il peso opprimente dell’angoscia e delle inquietudini anche con la forza in qualche modo dissacrante del sorriso è per te un’operazione spontanea o un’impresa faticosa e difficile?

P: Quando scrivo, ci sono delle cose che faccio molta fatica a tirare fuori. Per chiunque credo che sia molto difficile confessare qualcosa di doloroso o ricordare momenti di grande fragilità. Però nei concerti, come nella vita di tutti i giorni, sdrammatizzo in continuazione, anzi a volte mi dicono che lo faccio anche tanto. Per quanto riguarda i dischi, ho un particolare modo di intendere la canzone d’autore. “L’incompiuta” sembra quasi un carillon, ha una musica molto leggera, ma se ti addentri nel testo, scopri che l’argomento è molto più pesante, anche se espresso in modo semplice. Poteva essere un brano a cui associare fotogrammi non dico di ragazzi che giocano a mosca cieca, che non ci sono più, ma comunque di una giornata ariosa e soleggiata. Invece alla base c’è una riflessione che poi non è nemmeno così dolorosa per me, la consapevolezza dell’incompiutezza che ci consente di stare in piedi. Il sorriso lo cerco e lo trovo spesso. Però ultimamente sto attraverso un processo che potrebbe essere di maturazione o involuzione e rifuggo dalla scrittura ironica. Avevo dei pezzi che erano un po’ dei compiti: dallo spunto di due che litigano per un parcheggio, può venire fuori un pezzo sarcastico. Se scrivi un brano sulla difficoltà di andare al lavoro il lunedì, magari è molto radiofonico. Però per ora mi fa meno piacere che canzoni di questo tipo restino in un disco, perché temo che siano brani esili, che non lasciano traccia. Può anche essere una visione miope, non so…Quando riesco a mettere insieme l’ironia, la leggerezza con un contenuto che mi piace e mi emoziona, allora pubblico i pezzi, perché è l’emozione quello che cerco principalmente nelle canzoni. Per ora invece altri spunti divertenti resteranno nel cassetto, poi magari – che ne so ? - entrerò in una fase più ironica…

A: Sì, è importante in fondo che l’emozione duri nel tempo. Brani molto immediati fanno un certo effetto, ma lasciano il tempo che trovano.

P: Sì, “Dolci frutti tropicali” alla fine è solo una delle possibili compilation delle canzoni che avevo scritto. Ho scelto i brani che mi sembravano più conseguenti, ma poi ho avuto la sensazione che nel disco ci fosse poco. Però era importante per me fare una selezione, perché ho la tendenza anni ‘70 a fare i concept-album da 16 pezzi, inoltre quelle poche tracce magari qualcuno avrà voglia di riascoltarle nel tempo. L’album così è poco confuso. A volte con una o due canzoni in più rischi di sprecare e rovinare l’intero disco, perché arrivano all’ascoltatore informazioni che confondono.

A: E’ stata appena pubblicata nel disco di Bersani “Maciste”, che avete scritto insieme. Questo brano, come già il testo de “I passi che facciamo”, scritto per Celentano, è un po’ la dimostrazione che la tua vena impegnata e sociale, come hai raccontato spesso, è ben delineata e presente in te, ma non la senti consonante al tuo estro interpretativo, più incline all’intimismo e all’introspezione?

P: E’ un problema che mi pongo sempre. Anche questa volta, quando ho scritto i brani per questo disco, sono rimasti nel cassetto dei brani che andrebbero bene in un disco con tematiche più sociali. Ne parlavo proprio con Samuele, che invece è capace di osservare e decifrare il quotidiano. Mi piace molto come lo fa. Io invece scrivo di getto cose di quel tipo, poi, quando nel tempo provo a cantarle, mi sembra di non essere efficace, di essere meno dentro a quello che canto. Cerco invece dettagli sotto gli occhi di tutto, che diventano spunti per emozioni importanti e più convincenti. A volte mi spiace, perché non si tratta del timore di esprimere le mie opinioni. Anche quando ho modo di scrivere canzoni con gli altri, mi sembra di essere lo strumento meno adatto per certi temi. Quando scrivo per altri, cerco sempre di capire quale effetto facciano certe parole, anche molto sentimentali, dette da me e quale cantate da altri. Mi è successo per esempio con la Nannini. Certe cose dette da lei acquistavano una forza eccezionale che neanche immaginavo. Per ora non mi sento tanto pronto a cantare temi sociali.

A: Puoi vantare una serie lunghissima di collaborazioni, da Fossati a Celentano, dalla Banda Osiris a Bersani, da Simona Bencini a Petra Magoni e Ferruccio Spinetti e alla Nannini. C’è ancora qualcuno con cui ti piacerebbe lavorare?

P: Ho tanti artisti che ammiro tantissimo, ma le canzoni tendenzialmente se le scrivono benissimo da sè e non hanno certo bisogno di me! Sulla canzone sono di bocca buona, ho una grande nostalgia non dico per il pop nobile, perché bisognerebbe scomodare i Beatles, ma per il pop bene educato. Ci sono certe emozioni che proviamo o conosciamo tutti, come i tramonti, l’amore, la fine dell’estate, ecc., su cui si scrivono canzoni da sempre, anche se a volte qualcuno vuole squalificare certi temi. Frank Zappa diceva che per molti basta scrivere brani sulle foglie che cadono e quello è il pop. E’ verissimo, però dipende da chi scrive certe cose. Mi piacerebbe scrivere non dico per tutti, perché di alcuni non mi piace quello che fanno oppure per altri artisti non sono io l’autore giusto, però sono molto aperto. Molte delle canzoni che mi sono rimaste le sto proponendo e magari nei prossimi mesi sentirete nomi che vi sorprenderanno. Non posso dire niente perché non c’è ancora niente di definito…Però comunque sulla questione autorale sono molto aperto e questo mi consente di essere molto selettivo poi nel versante interpretativo e di portare avanti un discorso quanto più sincero e onesto possibile.

A: Un’ultimissima domanda. Ormai stai iniziando il tour estivo. Domani appunto c’è il concerto di Mantova, in piazza Alberti (ore 17, ingresso libero), poi mercoledì 31 maggio sarai al Palabrescia per il concerto di solidarietà “Nuovo sentiero”. Il 13 giugno sarai invece a Empoli, per il festival dell’Unità. Infine ci sono stati anche i primi annunci delle date di luglio (Ercolano 31/7, Asti 22/07).
Come descriveresti i tuoi concerti e la tua band (Diego Baiardi alle tastiere, Camillo Bellinato al basso, Johannes Bickler alla batteria, Silvio Masanotti alla chitarra elettrica solista) a chi non ha ancora avuto la possibilità di ascoltarvi dal vivo?

P: Sono contento di quello che facciamo. Lavoriamo insieme dall’inizio e quindi è stata proprio mia volontà che suonassero tutti anche nel disco perché quello che siamo insieme arrivasse anche all’ascoltatore del cd. Anzi, i concerti sono stati d’ispirazione per alcune cose dell’album. Sto facendo ancora un paio di prove, perché io sono abbastanza famoso per fare tantissime prove non solo per una questione a volte maniacale, ma perché io sono sicuro che in quel modo si tirerà fuori il sound più adatto, non solo per me. Essendo stato musicista per tanti anni, tengo moltissimo a che i musicisti siano in mostra nel modo migliore, non tanto da mestieranti che fanno 50 tour ma secondo le loro qualità. Tra l’altro non sono presuntuoso su altre cose, ma come arrangiatore e attenzione ai musicisti sì, perché ho lavorato con tantissime persone e sono molto attento a tirare fuori le loro caratteristiche, non rendendoli pronti a tutto. Spesso i musicisti si prestano a tutto, ma ognuno ha una sua qualità particolare. Abbiamo fatto allora un grande lavoro, che va avanti da anni, e il concerto da molto misto ed elettronico sta diventando sempre più acustico. Andiamo in giro sia in quintetto che con un trio [Pacifico, Baiardi, Masanotti]e sto facendo anche delle cose chitarra e voce, per forzarmi un po’ al palco. Quando lascio un po’ il palco, tendo a disabituarmi subito e a rifuggirlo, invece mi sto esibendo in situazioni diverse di ogni tipo, anche senza necessariamente la protezione della band. A Mantova ci sarà una mediazione…Avremo alcune sequenze, per avere soprattutto le parti di archi a cui mi dispiacerebbe rinunciare, però molte cose le suoneremo lì, con il batterista che viene davanti con un rullante o con uno strumento che ha un po’ incuriosito i fan sul mio sito, che si chiama in effetti cajon. E’ un concerto più acustico e un live in cui in effetti mi dicono che tutti si sentono a loro agio. Mi prendo molto sul serio quando scrivo, ma quando supero l’emozione, mi sento molto a mio agio, anche perché il pubblico con la sua partecipazione mi dà una mano, ad esempio cantando. Si creano delle situazioni molto divertenti, o emozionanti quando lo devono essere…Mi sembra un bello spettacolo, me l’hanno detto tante persone che sono venute a vederci. Non abbiamo una grande produzione, ma proprio per questo siamo molto ingegnosi! [ride] Gli spettatori quindi sono sempre abbastanza contenti. Immagino e spero quindi che a Mantova e da lì in avanti i concerti saranno tutti serate piacevoli.

Foto: Giovanni Canitano

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