articolo dei Massive Attack a cura di Francesca Trinca
Come September, recitava il titolo di una commedia inizio anni ‘60, quando il mondo aveva i colori benevoli delle speranze da quattro soldi, il lieto fine assicurato. Ora è tutta un’altra storia.
Torna settembre e si spegne (R.I.P) il Todays 2024, affievolito negli intenti già dalle premesse, con un cambio gestionale che lascia il fiele in bocca in fatto di line up e organizzazione.
Ai margini dello sventurato Parco della Confluenza campeggia un van della Regione Piemonte offrendo un servizio per la valutazione dell’impatto di alcol e sostanze (PIN); forse l’abuso di elementi psicotropi avrebbe potuto alleviare il fastidio avvertito a fronte di code dissennate al punto accrediti, un pass foto negato, in totale assenza di coordinamento e biglietti cartacei come se fossimo nel 1991, anno di uscita di Blue Lines.
Chiusura facilotta di un festival che avrebbe dovuto almeno cambiar nome – a parere di molti – giacché ha svenduto la propria identità a non si sa bene a chi/cosa, in nome di chissà che?
Un’unica band a riassumere il concetto cardine di tale dimensione, di questo “non tempo”, nulla di più pertinente: Massive Attack.
The joy of not being sold anything.
Citando Banksy, appunto. Questo è lo stato mentale al cospetto di Massive Attack, tornati a Torino dopo 14 anni, in un live compendio del loro percorso artistico e umano.
La riflessione imposta dall’evento è quasi inspiegabile: semplicistico trattarlo come concerto, restrittivo etichettarlo come atto culturale. Potrei anche tacere, finirla qua e sarebbe coerente in un momento storico obnubilato da media incontenibili e autorigeneranti. Onorerei Robert Del Naja/3D, il suo impegno dirompente sin dal Wild Bunch, la militanza discreta e puntuale.
Scrivo in nome della gratitudine, quale rispettosa testimone, lieta di aver sperimentato all’unisono pulp–iti d’anima e consapevolezza intellettuale; sì, perché è un flusso, al di là di ogni percezione, che scuote la viscere, abbraccia i sensi e li amplifica generando un’umanità nuova.
Il collettivo dona circa 90 minuti di live che sembrano annullare il tempo.
Lo fa con maestria ed eleganza, fondendo dub, reggae, hip hop, industrial, punk in un suono seminale e sfuggente, capace di riunire icone del reggae (Horace Andy) e bandiere della 4AD (Elizabeth Fraser) entro confini indistinguibili. Hauntologia e creazione del “Nuovo”.
Si alternano momenti fondanti come KarmaKoma, Angel, Safe from Harm, Inertia Creeps, attimi da brivido con Song to the Siren o Group Four; 3D e Daddy G dopo oltre trent’anni sembrano ancora sbucare da un altro universo, sospeso tra un club di Bristol di fine ’80 e il futuro più spinto.
Si potrebbe dire “post contemporaneo” con atmosfere e ritmi che scendono nelle profondità della terra e un impianto visivo attualissimo e attento alle forme bieche di sopraffazione e controllo che dominano il nostro mondo.
Sequenze testuali e numeriche piovono dagli schermi tracciando i confini di un universo automatizzato e costretto nel sistema binario da cui, tuttavia, sfuggono elementi indomabili. Visioni su Gaza e l’egemonia israeliana documentati con dati allarmanti; appelli a difesa della Palestina; lo spettro della guerra onnipresente, mucchi di macerie e le fabbriche di morte nella comodità di un salotto occidentale; la natura oltraggiata dalla mano dell’uomo.
Una volta ho sognato la fine di tutto, l’apocalisse: era un urlo feroce, acutissimo e il piano spaziale che si inclinava in modo definitivo, spezzato in un assoluto biancore. Il suono che accompagna questo inizio mese è ciò che viene immediatamente prima.
Gli angeli sono davanti a noi, una si chiama Elizabeth Fraser, intona canti alle sirene, con le lacrime a solcare il volto.
Linee di basso e percussioni grevi, chitarre dilatate e la pluralità di voci sul palco restituiscono un insieme dal respiro lontanissimo. Dietro, successioni di immagini vorticose, proiezioni numeriche, messaggi più o meno subliminali assorbono i presenti in un flusso “oltre”. La realtà tira schiaffi, qualcuno ancora se ne accorge e mette giù i telefoni. La storia si è fermata, nulla esiste al di là di un infinito presente in cui il Partito ha sempre ragione. L’antisistema è funzionale al sistema, ogni cosa si annulla.
La musica si ferma, palco semilluminato. Aspettiamo, prima di tornare verso l’asfalto. Un ragazzetto nelle retrovie urla ripetutamente “one more!”; ha trascorso un’ora e mezzo banchettando tra birrette e polifosfati, chiacchiere rumorose e inutili.
“Ma dove credi di essere?”, avrei voluto incalzarlo. Ad un live dei Massive Attack, anno 2024.
George Orwell e Ray Bradbury impartiscono la loro benedizione, Aldous Huxley santifica, io so che questa sera non finisce, tutto si ripete, niente ha più senso, ancora e ancora.
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