Self Portrait: il prog rock è una questione di stile!

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Dopo aver apprezzato il loro album di esordio Fishes Were Everywhere, un miscuglio di influenze che chiama in causa Genesis, Marillion, Porcupine Tree e Gentle Giant, ci è sembrato giusto dare voce ai Self Portrait, che ci hanno raccontato delle difficoltà di suonare prog rock in Italia, ma di come sia comunque bellissimo!

Come nasce l’idea di formare il gruppo e di suonare prog?
Il gruppo è nato qualche anno fa dalla comune volontà di comporre musica, di esprimerci e di trovare le nostre parole, le nostre note, senza usare quelle di altri e senza imporci di farlo entro certi schemi prestabiliti. Dunque se si intende questo con la parola “prog” (e noi è con questa accezione che la intendiamo), allora possiamo dire che l’intenzione c’era sin dal principio, circa tredici anni fa.
Siete anche tutti ascoltatori di questa musica o qualche componente è stato trascinato
dagli altri?
Tutti i componenti del gruppo, i presenti e i passati, hanno sempre avuto background
musicali molto eterogenei; c’erano però sempre punti di incontro comuni che non
rientravano necessariamente solo nell’ambito prog, ma spaziavano dal rock psichedelico al
pop anni ’70, dal metal al blues, insomma: tante influenze votate a una ricerca di identità
propria. Abbiamo sempre pensato che questo fosse un valore aggiunto per il gruppo, che ci
consentisse di ottenere uno stile poliedrico e meno condizionato.
Mi date una definizione della vostra musica, ho letto recensioni che vanno da classic a
modern prog. Dove pensate sia giusto collocarvi e perché?
Per quanto detto prima ci riconosciamo nel senso più ampio del progressive rock se poniamo
l’attenzione alla struttura dei brani, all’uso dei tempi composti, spesso dispari. Forse
stilisticamente sarebbe più appropriato identificarci nel più generico termine di AOR (Adult
Oriented Rock, o Album Oriented Rock); comunque considerando il fatto che cerchiamo di
non farci condizionare dall’appartenenza a un genere durante la composizione, farlo a
posteriori ci risulta piuttosto difficile!
Muovendovi nell’ambito prog i vostri brani sono mediamente lunghi. Pensate che gli
ascoltatori di questo genere abbiano ancora voglia di impegnarsi o siano stati fagocitati
dalla folle fretta che circonda tutto e tutti?
La lunghezza dei brani dipende dal fatto che la struttura è quasi sempre articolata in più
movimenti: l’auspicio è che questo renda più interessante il brano rispetto a tipologie
musicali più ripetitive di pari durata. Certamente chi ha lo “skip facile” e incappa in una
intro di un minuto è probabile che finisca per perdersi un nostro brano: la vita odierna è
frenetica, impaziente e superficiale, ma non crediamo che assecondarla in questo senso sia
una buona soluzione. Non è mai stato deciso a priori comunque quale dovesse essere la
struttura o la durata di un nostro brano e, come anche in tante altre forme d’arte, nella fase
creativa definiamo, articoliamo, ceselliamo, ritocchiamo, poi ad un certo punto, prima o
dopo, si capisce che l’opera è terminata.

“Moontrip” dall’esordio dei Self Portrait.

Ci spiegate il significato del titolo “Fishes Were Everywhere” ed in generale l’album
come è nato? Siete entrati in studio con tutti i brani pronti o avete sviluppato durante
le registrazioni?
Il titolo è un estratto del testo del secondo brano dell’album. Non è stato immediato trovarlo,
non per un album di sei brani caratterizzati da ambientazioni tanto diverse (lo spazio, uno
zoo, il mondo nel periodo antidiluviano, un carcere, il sottosuolo londinese, un
supermercato) perciò alla fine la scelta è caduta sulla scena conclusiva del secondo brano:
molto onirico e visionario, in cui l’acme terminale ci pare caratterizzi meglio l’essenza
dell’album nella sua interezza e che infine abbiamo anche ricercato nella grafica della
copertina realizzata da Laura De Roma in cui compaiono tantissimi elementi presenti nel
disco e i cui colori vengono forniti dall’ascolto.
L’album è nato come necessità di fissare i brani più consolidati del nostro repertorio e per
ufficializzarci come band in grado di produrre musica che, pur rappresentando la nostra
espressione, non fosse soltanto destinata all’esecuzione dal vivo, che amiamo e che ci
consente di avere un contatto diretto col pubblico, ma che avesse anche quella completezza
e qualità ottenibile solo dal percorso in studio di incisione. Quando siamo entrati in studio
quindi i brani erano già definiti ma nei mesi precedenti abbiamo svolto un gran lavoro
nell’analisi di quale fossero le soluzioni più idonee per gli arrangiamenti: sono state ideate le
seconde voci, definite e realizzate le tracce di metronomo e incise le ghost track per le fasi di
lavoro successive. Le sessioni di registrazioni sono state effettuate presso il RealSound
Studio di Mattaleto (PR) e grazie alla disponibilità di Cristian Coruzzi abbiamo dedicato
molto tempo al post-processing nell’ottenere il sound e i dettagli che ricercavamo nei brani.


Immagino che a muovervi sia innanzitutto la passione, ma sicuramente c’è anche una
punta di legittima ambizione. Che aspettative avete per il futuro?
Sì, certamente la passione e la soddisfazione per ciò che facciamo ci supporta nell’affrontare
le non poche difficoltà: sia quelle che ogni gruppo che decide di proporre musica originale
deve fronteggiare, sia quelle derivanti dalla scelta di avere tutti i componenti con un ruolo
attivo nella composizione dei brani e nelle varie fasi decisionali. A volte appare come un
piccolo esperimento sociale dalle cui interazioni non si smette mai di imparare.
Le nostre ambizioni riguardano la possibilità di poter proporre la nostra musica a un più
ampio pubblico in contesti live e, da un punto di vista compositivo, il buon esito del nostro
prossimo album al quale stiamo lavorando già da prima di incidere “Fishes Were
Everywhere”: un progetto sostanzioso ma sul quale abbiamo grandi aspettative.

Sul disco hanno suonato: Marco Fulgoni: chitarra, voce // Martino Pederzolli: basso // Giorgio Quinta Area Cimino: synth, organo // Luigi Mazzieri: batteria