Il frastuono di un pianeta che brucia e una tempesta di meteoriti che disintegra tutto, aprono il terzo album dei Silenzio Profondo.
Un “intro” talmente credibile che sembra emanare il puzzo di cenere e lava che vediamo nell’efficace copertina di questo album che è un autentico manifesto di heavy metal cantato in italiano.
Dopo due dischi, l’omonimo e “Ritornato dall’incubo” ben accolti dalla critica e numerosi concerti, dipanati in dieci anni di vita, che ne hanno forgiato una maturità sia in studio che sul palco, il quintetto mantovano pubblica il disco che ne certifica il ruolo di guida tra le band che hanno scelto di utilizzare l’italiano.
Nove brani per altrettanti gioielli, in un incrocio di riff, ritornelli, ritmiche martellanti, il tutto assemblato con una produzione che ha un solo nome: metal. I Silenzio Profondo suonano heavy metal, lo fanno con orgoglio, senza nascondersi in facili manierismi, non cercano la ballata strappa “like”, evitano scorciatoie. “Scilla e Cariddi” sigilla nel cuore i Judas Priest e gli eredi Primal Fear, la sincopata e durissima “Terra 51” rievoca i Megadeth più colti, mentre “Uomo sospeso”, introdotto dalla voce di un noto poeta della loro città, e “Il demone”, pura essenza di chitarra in terzina, stacchi tecnici e grandi chitarre, ci catapultano negli anni ’80, quando il metal dominava i cuori degli appassionati. “Schiavo della mente” avanza a balzi, mentre gli arpeggi malinconici di “Quarantena” che si trasformano in un brano potente, ci riportano alla memoria momenti tragici. “Eroe del tempo” è un inno potente dal taglio epico con il coro che si staglia sontuoso, su un ritmo tellurico, dimostrano che Maurizio Serafini è un grande cantante, intenso e drammatico.
Concludo con una sola considerazione, forse un azzardo, ma ci credo: se cercate gli eredi della Strana Officina, questo five-piece lombardo ha le qualità per ambire al prestigioso ruolo. “Terra Madre” lo dimostra, è un album splendido, suonato magnificamente, con un suono classico e grandi canzoni.