Ci sono voluti otto anni di esperienze variegate, che ne hanno cementato stile e direzione artistica, per portare i parmensi Self Portrait all’album di esordio.
Traguardo che così trova basi solide, a differenza di troppe band che dopo periodi brevi di condivisione, si gettano nelle fauci di debutti, che suonano fragili sin dalle prime tracce.
Per “Fishes Were Everywhre” i Self Portrait, hanno invece trovato il giusto equilibrio tra le proprie influenze e il desiderio di trovare una strada personale. Nascono così sei brani, mediamente lunghi, come rock progressivo, perché di questo stiamo parlando, richiede. Ma dimenticate le esibizioni di tecnica, le scorribande strumentali autocelebrative. L’intento del quartetto è quello di lavorare sulle melodie, sviluppate sempre con l’intento di non essere banali, ma nemmeno troppo cervellotici, grazie a tappeti di tastiere sempre affascinanti.
Ecco così i fraseggi di “Moontrip” e “Tiergarten”, gli intrecci tra voci soffuse e cambi di ritmo eleganti in “Enoch” e “Croup And Vandemar”, ma il brano che meglio di tutti svela i talenti del gruppo, a mio avviso è “Nine Magpies And A Black Cat”, intagliata su una melodia rotonda, gonfiata da un bell’utilizzo di organo, con la voce felpata del chitarrista Marco Fulgoni in evidenza.
Si parla di influenze in apertura e mi permetto di citare i Marillion del periodo “Brave”, i Porcupine Tree dell’ultima fase creativa, certi Pink Floyd anni ’80, non più ossessionati dall’apparire unici, ma desiderosi di offrire anche canzoni lineari e la tradizione più romantica del prog italiano dei ’70.
“Fishes Were Everywhere” è un album ricco, intelligente, che piacerà a chi nel prog rock non cerca solo emulazione, ma anche spicchi di originalità.
Complimenti sinceri!
Marco Fulgoni: chitarra, voce // Martino Pederzolli: basso // Giorgio Quinta Area Cimino: synth, organo // Luigi Mazzieri: batteria