La cantautrice canavesana prova a volare alto nel nuovo album “Aleph”
Il quarto disco di Pamela Guglielmetti rappresenta al contempo un progetto ambizioso e lo snodo potenzialmente importante di un percorso di ricerca ancora non del tutto compiuto, come l’attitudine del vero cercatore e lo spirito stesso della ricerca esigono.
“Aleph”, oltre ad essere una citazione di Jorge Luis Borges e Paulo Coelho (l’accostamento verrà perdonato), è il nome della prima lettera degli alfabeti fenicio ed ebraico – dunque una sorgente, un punto d’origine – e ancora, da una prospettiva esoterica, la rappresentazione simbolica dell’Unità primordiale, del Principio che contiene il Tutto così come il seme contiene la pianta. E in questa Unità, appunto, trovano spazio riflessioni intime sulle relazioni tra gli esseri senzienti, sulle morti e sulle rinascite che continuamente affrontiamo nella vita, sulla bellezza come necessità imprescindibile e sull’evoluzione interiore a cui siamo chiamati.
La cantautrice dedica particolare attenzione alle liriche, orientate verso temi di ricerca spirituale e consapevolezza interiore, certamente guidata da ascolti luminosi nel firmamento della canzone d’autore, dal Battiato più mistico fino a risalire ai classici, qui rappresentati da una bella rilettura di “Ne me quitte pas” di Brel nella traduzione di Paoli. In ogni brano, in particolare, appare evidente una precisa ed encomiabile volontà di evitare il luogo comune, la soluzione facile e le strade maggiormente battute.
A fronte di questo approccio rigoroso, onesto e profondamente ragionato e di questi nobili propositi, che sicuramente sapranno generare frutti maturi in un futuro non lontano, “Aleph” presenta tuttavia ancora dei lati in ombra: una vocalità che appare a tratti incerta, non pienamente sbocciata, e una poetica e una tessitura melodica che, a fronte di temi che richiederebbero in alcuni frangenti un respiro ampio e la vertigine del volo, sembrano invece ancora impegnate a cercare lo spunto per staccarsi da terra, riuscendovi solo a tratti.
Produzione e arrangiamenti (opera di Salvatore Papotto, come anche il mastering) appaiono più elaborati rispetto al passato e delegano un compito importante ai synth e alla programmazione, pur conservando una certa sobrietà nell’intenzione di creare ambientazioni e spazi piuttosto che colmarli di suoni superflui. Questa autarchia musicale, tuttavia, se da un lato dona coesione al progetto, dall’altro trasmette l’impressione di ascoltare, più che un disco finito, una pre-produzione o una (eccellente) demo.
Tutto conferma dunque l’impressione di una potenzialità in divenire, di un’artista in cerca del registro più adatto all’espressione della propria sensibilità. Da seguire attentamente.
Pamela Guglielmetti, “Aleph” (La Stanza Nascosta Records, 2023)