Andrea Bonioli: un album sull’essere figlio sempre

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“Figli Forever” è il terzo disco del batterista Andrea Bonioli uscito per l’etichetta Filibusta Records. Un lavoro che prosegue con il concetto di concept album che già l’autore aveva espresso nei precedenti dischi “The commercial album” e “Pop”. Il progetto è composto da sette tracce eterogenee in cui si spazia dal piano trio fino al sestetto, con la complicità dello strumento voce e anche degli archi in un brano. Il concetto, però, rimane sempre quello di essere figlio anche quando si diventa genitore. Ne parliamo a tu per tu con Andrea Bonioli.

Con quale formazioni preferisci incidere, e con quale suonare live? Trio, quartetto?
Fosse per me inciderei sempre con un’orchestra completa per non farmi mancare mai nulla, ma evidentemente è piuttosto complessa come soluzione, quindi anche in quartetto o quintetto otteniamo un buon risultato. Live, ultimamente ho sperimentato la formula del trio che devo dire mi piace molto, forse si perde qualcosa, qualche voce tematica, ma nel complesso ho l’impressione che si suoni maggiormente uniti, con un focus più chiaro, detto ciò mi piace suonare in qualsiasi formazione!
Come è andato il tour Europeo dello scorso aprile
E’ andato molto bene! C’è sempre stata grande affluenza di pubblico sia nei club che nelle sale da concerto dove abbiamo suonato, mi sembra di poter dire che la musica sia piaciuta, tutti sono rimasti entusiasti dei concerti svolti, a partire da noi, cosa non secondaria. Ho notato un pubblico adulto, molto adulto, forse più attento e complice all’idea che si sta sponsorizzando un disco fisico, che ancora lo concepisce come tale, molte domande mi sono state poste a testimonianza di un ascolto attento e coinvolto. Organizzare tutto da solo è stato molto faticoso, si, ma sono pronto a rifarlo altrove! Confermo che il pubblico lontano dalle mura amiche mi risulta sempre più favorevole.
Come si è evoluta la tua musica al terzo album?
Penso ci sia una continuità tra i tre album finora editi. Certamente quest’ultimo è il più eterogeneo per formazioni utilizzate nei vari brani, credo che ad un primo ascolto scorra tutto senza alcuna ridondanza musicale, credo questa sia l’evoluzione principale del disco, la varietà.
Come ti senti dentro i progetti con i quali collabori?
Adoro partecipare a progetti di altri e credo di essere portato a farlo, quando mi viene chiesto cerco di comprenderne l’idea che poi è quello che “chiedo” a chi suona nei miei, certamente l’essere deresponsabilizzato a livello logistico mi permette magari di concentrarmi di più su quello che faccio io, mentre quando suono nei miei progetti ovviamente ho una visione d’insieme più articolata.

Il significato di Figli Forever?
Semplicemente è una riflessione sulla “condizione” dell’essere figlio sempre, anche da genitore, della sensazione di essere in qualche modo un po’ ormeggiato da qualche parte da momento che si nasce fino all’eternità. Essere figlio, come dice anche l’incipit del dott. Recalcati è l’unica cosa dalla quale nessuno di noi può sottrarsi, una condizione che altri decidono e che poi tu vivi. In senso lato, poi, si può rimanere legati ad un idea, una persona, un luogo, una cosa, un momento dal quale proprio non si riesce ad emanciparsi e, pertanto, si tende a rimanerne “figlio”. Infine è un chiaro inno alla vita che va avanti, appunto con altri figli, con altre deleghe, con altre attese, con altre emozioni.
Come definiresti il tuo jazz?
Da sempre penso che il jazz sia un linguaggio più che uno stile. Certamente tutti abbiamo amato e studiato gli stilemi dello swing, del bebop, ma credo che questa musica negli ultimi trenta anni ormai sia un pretesto per suonare e divulgare un messaggio intriso di improvvisazione che ne connata poi la differenza reale. Cioè, io posso pure scrivere un bel tema, ma se poi non succede niente dopo rimane un po’ tutto fermo, il jazz lo fanno i musicisti, la differenza è quella! E’ per questo che lo definisco un linguaggio, perché si coniuga tutto ed il contrario di tutto ogni volta che si suona, con persone diverse, in posti diversi, con strumenti diversi, eppure i brani sempre quelli sono. Armonicamente sono molto lontano dal bebop, tendo più al jazz nord europeo dove in effetti certi cliché sembrano essere ormai stati mistificati, in ragione di un’evoluzione stessa del genere musicale che, appunto, secondo me è diventato un linguaggio di espressione emotiva, e non più un breviario di frasi che i grandi hanno fatto nei dischi precedenti. Insomma, quello che reputo importante è che ognuno dica quello che vuole senza temere né confronti né critiche, accettandole anche, ma l’importante è rimanere fedele a sé stessi, a quello che uno vuole comunicare.
Se dovessi scegliere un dream team di feat con musicisti stranieri, chi sceglieresti?
Anche in Italia ci sono fior di musicisti di livello altissimo , però se proprio dovessi scegliere una band straniera mi porterei Bill Frisell, Dave Holland e Brad Meldau per non saper né leggere né scrivere.
In studio arrivi già con brani definiti o solo tracce da sviluppare?
Tendenzialmente i brani sono già definiti abbastanza nell’arrangiamento, poi certo capita spesso che le cose cambino strada anche in base a quello che i musicisti che suonano propongono e sentono di poter contestualizzare, però in linea di massima le linee tematiche rimangono quelle che ho in testa io, sicuramente vengono arrichite.

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