The Last Drop Of Blood: fino all’ultima goccia di ispirazione

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Sono una delle realtà più interessanti degli ultimi anni, in bilico tra blues paludoso e rock moderno, i The Last Drop Of Blood, si svincolano dalla banalità per offrire una visione personale di rock del terzo millennio. Il chitarrista e leader Francesco Cappiotti, ci illustra come sono arrivati alla realizzazione di “Season II” e di come e perché la musica può diventare molto di più che un divertimento,

L’esigenza creativa di “Season II” che tipo di sviluppo ha avuto? Siete partiti da un nucleo di idee o avete lavorato pezzo per pezzo e poi assemblato un album?

L’ispirazione di questo disco ha due precisi poli, uno personale e autobiografico, l’altro squisitamente estetico. Per rispondere alla tua domanda, Season II parte da un nucleo di idee molto preciso, vicino addirittura al “concept”.

Perché “Season II”? Riguarda la band o qualcosa di più ampio legato ai nostri tempi?

E’ un titolo che avevo in serbo da tempo. Alla base dei TLDOB c’è questa idea di pensare noi stessi come personaggi di una serie televisiva che non c’è. Chiamare “Season II” il nostro secondo disco è il rimando perfetto per alimentare questo gioco illusionistico tra la musica e il cinema/televisione

Potete illustrarci qualcosa riguarda ai testi? Li lega un percorso comune o sono slegati tra loro?

Come già detto, c’è un tema comune. Quasi un “concept”. Il nucleo dei testi parte da esperienze autobiografiche, che non ho narrato in modo diretto, ma utilizzando metafore e in generale un linguaggio appartenente ad un universo western/gotico. Gli anni che separano il disco d’esordio da questo mi hanno personalmente portato esperienze  dure e potrei anche dire estremamente poco comuni, che ho affrontato scrivendo questo disco. Di cosa parlano i testi? In una parola di Destino. Di pescare la carta sbagliata da un mazzo truccato. In questo tema centrale si è, a sprazzi, inserita anche la pandemia. “Postcards from a ghost town” è una riflessione su una relazione terribile che in un modo o nell’altro è finita, narrata sullo sfondo di una città fantasma, che è un clichet del western, certo, ma  allo stesso tempo è ciò che abbiamo visto coi nostri occhi durante il lockdown. 

Anche per questo disco vi siete affidati a Shawn Lee per la produzione, che vi consegna l’album finito, senza nessun vostro intervento. Vi fidate a tal punto da non sentire nessuna esigenza di essere coinvolti?

Lo sbaglio che in molti fanno è quello di affidarsi ad un produttore volendo però mantenere il controllo fino all’ultimo. Questo è un segno di insicurezza. Il risultato è che il produttore non può fare il proprio lavoro ed il lavoro finale risulta debole. E così, già col primo disco, abbiamo elaborato questo metodo: per prima cosa lavoriamo agli arrangiamenti in autonomia, portando i brani alla loro migliore versione possibile. Poi ne realizziamo un provino che Shawn valuta. Fatte le eventuali modifiche entriamo in sala di registrazione e ne incidiamo una versione convincente. A questo punto per quello che mi riguarda il lavoro della band è finito. Mandiamo il materiale a Shawn che, se lo ritiene necessario, aggiunge altri strumenti, cori, etc.  e infine lo mixa. Come facciamo a fidarci così? Beh, lui è Shawn Lee.   

Ci raccontate come è nata l’amicizia con Shawn Lee?

L’anno è il 2013.  Per il secondo disco dei Facciascura, avevo composto un brano  intitolato “New Songs Are No Good” e dopo averlo inciso sono stato colpito da questo preciso pensiero: “Su questo brano ci starebbe da Dio la voce di Shawn Lee”. Questo però era un pensiero da fan, nel senso che non avevamo nessun contatto professionale con lui. Poi quasi per gioco, andando a cercare su internet un contatto mail (nel 2013 era ancora possibile), lo abbiamo trovato e abbiamo mandato una richiesta di collaborazione. In linea di massima credevamo che sarebbe arrivata una risposta negativa da parte del management e invece nel giro di pochissimo è arrivata la risposta direttamente da Shawn, che ci chiedeva di ascoltare il brano. Glielo abbiamo mandato. Lui lo ha ascoltato e la sua risposta è stata “New Songs Are No Good. It’s fun and I like it. I’ll do it”. Il resto per noi è storia’’. Con lui abbiamo condiviso un bel numero di date italiane, a volte suonando il suo repertorio come backing band, in seguito suonando i pezzi dei TLDOB accompagnati da lui come musicista aggiunto. Ed è stata un’enorme soddisfazione personale.

“Feelin’ Good” con ospite il produttore Shawn Lee

Una curiosità: la vostra immagine quanto è correlata con la vostra espressione artistica? Perché questa scelta?

La correlazione è fortissima, nel senso che consideriamo la nostra immagine una parte della nostra espressione artistica, che continua e viene amplificata dai contenuti visivi che produciamo. Mettiamola così: un certo giorno siamo entrati in una macchina del tempo (e dello spazio), che ci ha portato da qualche parte nell’America di fine Ottocento. E poi abbiamo fatto ritorno portando con noi cappelli, fucili e canzoni.

Come e dove vi collochereste nella scena rock attuale, così ricca di piccole chiese e di fedeli intolleranti al resto?

Mi piace pensare che siamo a cavallo tra il rock e qualcosa di diverso: musica cinematica ed arte visiva.  Sulle piccole intolleranze potrei dirti questo: chi è intollerante lo è perché non è certo della propria identità. A questo  punto del nostro percorso musicale noi abbiamo trovato un’identità molto precisa e quindi siamo sufficientemente sicuri di quello che facciamo da rispettare tutti gli altri.

The Last Drop of Blood: Francesco Cappiotti (chitarre e illustrazioni grafiche), Carlo Cappiotti (voce), Chris Meggiolaro (basso), Claudia or Die (sintetizzatori) e Michele Martinelli (chitarre).

Contatti: thelastdropofbloodband@gmail.com

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