Mio padre è sempre stato un grande fans di Elvis e per questo sono cresciuto con la sua musica. Per questo è stato naturale per me cimentarmi con il suo repertorio. La mia idea, nell’incidere queste due cover di Elvis, è stata quella di ripartire da quello che mi piace veramente, prima di rituffarmi in nuovi progetti .. Matthew Lee spiega così a Musicalnews.com come è nata l’idea di rendere omaggio al Re del Rock’n’Roll. Dopo aver realizzato una cover di “Suspicious Minds”, l’artista di Pesaro, che vanta ormai una notorietà internazionale nell’ambito del rock’n’roll, pubblica oggi per CinicoDisincanto una personale versione di “Can’t Help Falling in Love”, questa volta con la straordinaria partecipazione della leggenda della musica italiana Bobby Solo. Matthew Lee ha ben sette album all’attivo e un calendario di concerti che lo vede ogni anno protagonista in tutto il mondo, dalla Germania agli Stati Uniti d’America, passando per Dubai e la Svizzera.
E’ stato senza dubbio azzeccata la scelta di duettare con Bobby Solo in “Can’t Help Falling in Love”, visto che si tratta di uno degli artisti italiani più significativa nell’ambito presleyano. Com’è nata la collaborazione con Bobby Solo? Siamo amici da oltre 10 anni e da tempo volevamo fare qualcosa insieme. Quando ho deciso di affrontare il repertorio di Elvis Presley è stato logico coinvolgerlo. Il tutto è nato durante il periodo della pandemia, in cui ci siamo scritti, sentiti e confrontati spesso. Lui è un grande esponente del rock’n’roll. E soprattutto è un grande fans di Elvis: il suo ciuffo non mente!
Invece quando ti è venuta l’idea di riprendere in mano il repertorio di Elvis? Prima di ripartire con brani nuovi, sono voluto ripartire da quello che mi piace veramente. In questo caso ho voluto realizzare queste cover con rispetto, mettendo un po’ di modernità. Nel caso di “Can’t help falling in love” ho decido di rendere questa ballad più country, ma un country particolare. Diciamo una via di mezzo tra pop e country.
Riflettevo sul fatto che in quest’ultimo anno Elvis è tornato molto di moda. Prima il film diretto da Baz Luhrmann, poi la relativa colonna sonora, che vede anche i Maneskin cimentarsi in “If I Can Dream”. E per restare in Italia anche un gruppo come i Baustelle, che ha deciso di chiamare il suo ultimo album in studio “Elvis”. Secondo te da cosa deriva tutto questo nuovo interesse per Elvis? Sicuramente il film ha dato una bella spinta, tanto che anche la Generazione Z ora sa chi è Elvis. Elvis è musica, è immagine, è tutto. E’ un personaggio che va oltre la musica, in grado di catturare l’attenzione di un pubblico molto basto. Riflettevo sul fatto che Elvis è venuto a mancare all’età di 42 anni e che nella sua carriera ha prodotto molto, reinventandosi stilisticamente diverse molte. Secondo me se fosse vissuto più a lungo sarebbe stato ancora un punto di riferimento nella musica e si sarebbe reinventato ancora, un po’ come ha fatto Tom Jones, altro artista che ammiro molto. Oggi Elvis fa ancora grandi numeri.
Per quanto riguarda un tuo nuovo lavoro quando bisognerà aspettare? Per quanto riguarda la scrittura proseguirai con i testi in inglese? In realtà ho in cantiere una cinquantina di brani. Ora si tratta di fare una selezione per arrivare a quella decina di pezzi da ultimare per la produzione. Per quanto riguarda i brani continuo a collaborare con Paul Kaye Jones, autore che vive nel Galles. Per altri pezzi ho avuto modo di scrivere anche insieme a Jeff Covier, un autore newyorchese che vive a Nashville.
Ora una domanda che può sembrare scontata. Quali sono i tuoi riferimenti musicali? Sicuramente i grandi del rock’n’roll. Oltre a Elvis, io ho sempre ammirato artisti come Jerry Lee Lewis, Albert Lee e John Lee Hocker. Non ha caso mi chiamo Matthew Lee, con “Lee” in omaggio a questi grandi artisti. Però anche io ascolto anche altri artisti che, pur non appartenendo a questo mondo, mi sono stati di ispirazione. Penso sa Elton John, ma anche a Robbie Williams.
Ricordando i tuoi esordi, mi ricordo che facevi molti concerti nel giro del gruppo dei Nomadi, band che quest’anno compie 60 anni di carriera. Come nacque l’incontro con loro? Sono molto legato ai Nomadi, perché sono stati i primi a credere in me. Nel 2006 furono loro a produrre il mio primo album “Shake”. Li incontrai nel 2004 perché al tempo partecipai a un contest per emergenti a San Costanzo, un piccolo comune della provincia di Pesaro. Presentava Red Ronnie e in giuria c’erano il fondatore dei Nomadi, Beppe Carletti e il loro manager di allora Maurizio Dinelli. Fu Red Ronnie a dire loro: “Questo qui è forte!”. E così, pur essendo di un genere diverso dal mio, decisero di darmi una chance. Ricordo diverse esibizioni fatte in apertura dei loro concerti.
Tieni concerti in tutto il mondo. C’è molto interesse attualmente per il rock’n’roll? C’è ancora un grande pubblico che segue questo genere. Lo vedo nei concerti che tengo in ogni parte del mondo. Penso all’Inghilterra, alla Francia e alla Svizzera, per non parlare degli Stati Uniti d’America. Tra l’altro in questo ambito poi ci sono anche delle diramazioni, come il rockabilly. Ma restando al rock’n’roll tradizionale possiamo dire che è una nicchia, ma che in realtà è decisamente enorme.