Pubblicato dall’etichetta Emme Record Label, “Tough Future” è l’ultimo disco di Elias Lapia. Un lavoro moderno e dal grande senso melodico a cui hanno partecipato Enrico Le Noci alla chitarra elettrica, Alessandro Bintzios al contrabasso e Luca Gallo alla batteria. Ne abbiamo parlato con Elias Lapia che ci ha raccontato come è nata questa nuova avventura.
Elias per cominciare l’intervista partiamo dal titolo di questo disco Tough Future: ha un significato particolare per te?
Si, ho scelto questo titolo riferendomi alla difficoltà di essere un giovane emergente in Italia e in generale alla mancanza di prospettive legate al fare questa professione oggi che vanno a creare un futuro arduo e imprevedibile.
In questo disco convivono un approccio melodico e anche le nuove tendenze del jazz internazionale. Ce lo vuoi descrivere brevemente?
Nella composizione cerco sempre di avere un approccio cantabile con temi che restano in mente con facilità lavorando spesso sulla complessità armonica e strutturale dei brani; questi punti chiave sono alcuni degli insegnamenti che mi sono rimasti dagli studi in Francia e che mi hanno permesso di leggere meglio gli approcci compositivi di alcuni dei maggiori jazzisti di oggi della scena newyorkese.
Sappiamo che nel tuo percorso musicale hai avuto anche diverse esperienze all’estero, ce n’è qualcuna in particolare che ti ha lasciato un ricordo importante?
Sono state tutte molto importanti. Vinsi una borsa di studio per il Berklee College of Music di Boston e stetti lì per quasi due mesi; c’era un livello pazzesco ed è stata una delle esperienze più belle della mia vita. Poi sicuramente l’Olanda, che per quanto meno entusiasmante come “Way of Life” mi ha permesso di studiare con John Ruocco, clarinettista e sassofonista americano straordinario che mi ha dato accesso ad un mondo di informazioni musicali enorme che hanno aperto nuovi orizzonti nel mio modo di suonare.
Le tue esperienze all’estero in che modo hanno influito sul tuo modo di concepire la musica?
Lo hanno stravolto, mi hanno permesso di incontrare tanti musicisti che hanno nutrito enormemente il mio approccio improvvisativo e compositivo. Ricordo gli anni all’estero come un periodo di enorme espansione
Molti dei brani del disco sono stati scritti nel periodo della pandemia. Cosa è cambiato da quel momento?
Innanzitutto c’è stata un ancora ulteriore digitalizzazione della professione; praticamente viviamo su Instagram e Youtube. Per quanto mi riguarda sono passato dall’essere studente a dover costruire una vita lavorativa con il jazz.
Inoltre se dovessimo fare un parallelismo con il periodo pre pandemia e post pandemia trovi delle differenze?
A livello sociale la gente mi sembra più chiusa e meno aperta di prima, ma questa è una mia impressione. A livello musicale non vedo grossi cambiamenti, ma prima non mi curavo troppo dell’aspetto professionale ero troppo intento a scoprire cose con la musica.
Parliamo anche dei musicisti che per te sono stati fonte di ispirazione. Quali sono i tuoi riferimenti musicali?
Ho avuto tanti periodi con tanti innamoramenti. All’inizio Kenny Garrett, Charlie Parker, Sonny Stitt e Jackie McLean ebbero un grosso impatto. Per Coltrane ho sempre avuto un amore incommensurabile. Negli ultimi anni Joe Henderson, Jerry Bergonzi, Joe Lovano e Chris Potter sono stati importantissimi fari di estetica e immaginazione.
Per concludere raccontaci anche il tuo percorso artistico in generale e come ti sei avvicinato alla musica…
Iniziai a suonare il flauto alle medie come tanti ragazzini e notando il mio interesse la mia famiglia mi comprò un sax, fu un colpo di fulmine! Poco dopo arrivarono i primi dischi di jazz e da li iniziò il lungo percorso che mi ha accompagnato fino a adesso.