Il film Bohemian Rhapsody diretto da Brian Singer, con la produzione di Dexter Fletcher, ha rievocato la storia della band inglese dei Queen. Il doppiatore italiano che ha incarnato la recitazione di Rami Malek (Freddie Mercury) è Stefano Sperduti. Lo abbiamo incontrato e ci siamo fatti raccontare come è riuscito a calarsi nei panni del cantante della celebre band e quali sono state le difficoltà, oltre ad alcuni aneddoti e curiosità.
Benvenuto su Musicalnews e grazie della disponibilità. Prima di tutto parlaci della tue esperienze pregresse nel doppiaggio.
Di niente Jean-Pierre, ti do una classifica dei primi 4, in ordine di intensità ed esperienza di vita. Al primo posto naturalmente “Bohemian Rhapsody“, poi “Belfast“, “Nureyev” e “The Dirt: Mötley Crüe“. Per quanto riguarda il primo film, quando doppiavo Freddie Mercury, per me era un mito di gioventù e sentivo il peso della responsabilità già dai primi due provini ed il trailer di lancio. Mi sentivo nuovo anche da fan, oltre l’emotività. Per quanto riguarda quest’ultima, più che altro tecnicamente nel doppiaggio, doppiamo il film e metto la mia voce sulla voce dell’attore, i doppiatori in poco tempo devono ricreare le stesse emozioni soprattutto nei film drammatici, e bisogna pescare nella propria emotività (una specie di contenitore dove vai a pescare la giusta emozione o ricordo, poi a cercare la tecnica (attoriale del doppiaggio) per completare il tutto.
Come sei riuscito a calarti nei panni Rami Malek?
Il nostro lavoro ha una specie di automatismo, ricolleghi a quello che vedi nello schermo e cerchi nelle tue esperienze , nel doppiaggio c’è uno studio del personaggio, ricercare le interviste e cogliere la fragilità. Il lavoro del doppiatore è solitario, mentre al contrario e paradossalmente Freddie si rapportava direttamente con un vasto pubblico. Sono cresciuto con i Queen, è stato un sogno ed anche una esperienza professionale dura. Il direttore del doppiaggio Marco Guadagno: prima di iniziare mi chiese se avevo fatto il militare, io risposi di no e lui mi disse che questa esperienza lo diventerà. Marco ha un suo metodo impegnativo, a fine giornata ero esausto, ma alla fine ne è valsa la pena dato il riscontro del pubblico.
Quali sono state le difficoltà?
Capacità di restituire le emozioni ed ero in quel periodo un professionista in formazione. Le difficoltà più che altro erano tecniche (gomma attaccata ai denti per riprodurre la particolare anatomia della dentatura di Freddie), poi la prova di canto (per vedere quanto la mia voce si legava alla voce dell’attore). Ma alla fine gli sforzi sono valsi e la Fox mi ha scelto per questo bellissimo ruolo.
Puoi dirci qualche aneddoto e curiosità?
Come ho accennato prima per la particolare arcata dentale di Freddie, ho fatto prima uso denti finti, poi di un bite ed infine ho trovato un giusto compromesso con gomme da masticare attaccate ai denti. Poi per i profani, nel lavoro del doppiaggio ci sono turni da 3 ore per arrivare alle 12 ore. Un’altra curiosità riguarda il secondo provino, nella scena di “Another one bites the dust” dovevo dire il testo, mentre il bassista suonava e il mio inglese era un po’ maccheronico. Mentre per The Dirt: Mötley Crüe, dato che sono un DJ (di musica elettronica) ed anche fonico, è stata una esperienza diversa e la storia è forte. Quando ero piccolo recitavo timido, poi ho fatto DJ e fonico per 10 anni, ho visto tanti direttori di doppiaggio, ad un certo punto, provavo a doppiare a casa, e alla fine a 30 anni ho provato ad entrare nel mondo del doppiaggio. All’inizio facevo tutte e due. Poi solo doppiaggio.
Attualmente a quali progetti stai partecipando?
“About Elementary” (Netflix) è una commedia, quindi più nelle mie corde e “Smily” (Netflix) con un altro doppiatore Francesco Bulcan, e ho partecipato anche a “Libri vivi” su Audibol (N.B.R. ricostruzioni in film simili ad audiolibri e molto vicini al teatro).
Oltre a Bohemian Rhapsody a quale progetto sei più legato? E perché?
Indubbiamente “Nureyev” (a Roma ho conosciuto anche l’attore/ballerino russo che lo interpretava) il film che parla della fase parigina di Nureyev, anche perché questo film veniva cronologicamente subito dopo “Bohemian Rhapsody”, quindi era importante per il mio periodo del lancio professionale.
(a cura di Jean-Pierre Colella)