Un progetto che mette insieme musica e letteratura. Si tratta di Torno per Dirvi Tutto del cantautore e scrittore Lory Muratti. Il 22 novembre sono usciti un album e un libro. Negli 8 capitoli del libro così come negli 8 testi delle canzoni che condividono i luoghi, le atmosfere e i personaggi, il musicista, scrittore e regista intreccia vissuto e finzione per raccontare una storia in equilibrio tra ombra e speranza, morte e rinascita. Anticipato in radio dal singolo Due comparse perfide, l’album, è composto da 8 canzoni rock dall’animo orchestrale, che affondano le proprie radici nelle sonorità tipiche della new wave, ma che, al tempo stesso, si rifanno agli chansonnier francesi e al cantautorato italiano tradizionale.
A Febbraio dell’anno scorso, Lory Muratti era stato intervistato da Giancarlo Passarella per la promozione del progetto Lettere da altrove.
Musicista, scrittore e regista. È difficile dover dare una classificazione precisa al tuo lavoro. In questo momento come ti senti dal punto di vista artistico?
Sento di essere sempre più interessato all’opera “di vita”. Un po’ come dire che ciò che creo è figlio di un’altra opera, più grande, che tutto contiene. L’opera delle opere ovvero il mondo (reale e immaginato) che, passo dopo passo, nella luce o in penombra, prende forma strada facendo, di disco in disco, di libro in libro. Certe tappe sono conosciute, ma la destinazione si chiarisce e ridisegna soltanto strada facendo così come gli strumenti che decido di adoperare durante il cammino. Musica, scrittura e visioni sono solo attrezzi adatti a esprimere un modo di sentire che è comune a tutti i volti del mio creare e che soggiace al percorso creativo o, appunto, a quella che intendo come opera di vita. “Torno per dirvi tutto” in questo senso rappresenta per me un traguardo molto importante poiché è forse il titolo in cui sono riuscito a trovare fin qui il migliore equilibrio tra vita reale e immaginata.
Quando hai maturato l’idea di “Torno per dirvi tutto”? Sono nate prima i testi delle canzoni o il libro?
“Torno per dirvi tutto” rappresenta il terzo capitolo di una trilogia apertasi con “Hotel Lamemoria” (pubblicato all’epoca sotto lo pseudonimo “Tibe”) e proseguita successivamente con “Scintilla”. Tre libri (e tre dischi) con il medesimo protagonista che porta il mio nome, personaggi ricorrenti e un fil rouge che li attraversa in una lunga storia che può essere scoperta nella sua completezza così come nell’autonomia di ogni singolo titolo. L’idea di questo percorso era chiara sin dall’inizio seppur, come accennavo prima, ho dovuto mettermi in viaggio per scoprire dove mi avrebbe portato. I miei romanzi possono essere inscritti nell’universo dell’autofiction ovvero in quel particolare genere letterario dove è l’autore stesso il protagonista della narrazione e dove realtà e menzogna, verità e immaginazione si mescolano ridisegnando la storia personale e portandola oltre la vita vissuta dentro i confini dell’invenzione letteraria. Seguendo questo schema prendono forma parole e musica. Uno schema riconducibile al mio raccontare di ciò che vivo per poi tradurre quel che ho scritto in musica. È una formula a cui ho dato vita in modo del tutto spontaneo sin da quando giovanissimo scrivevo i primi racconti per poi estrapolare da quelle pagine il testo di una canzone che condivideva con la narrazione luoghi, atmosfere e personaggi. Era poi la canzone, con la sua capacità più immediatamente emozionale e “di pancia”, a riportarmi sullo scritto dandomi la spinta per intervenire nuovamente e mettere a fuoco alcuni aspetti o riscrivere delle pagine. Un modus operandi basato sul dialogo fra le due forme il cui respiro è cresciuto negli anni fino a prendere le sembianze di un romanzo e un disco di canzoni ispirate alla storia raccontata nel libro. Due anime gemelle con le quali è sempre possibile decidere di confrontarsi separatamente, ma che sanno aprire la porta di un mondo molto più vasto quando scoperte entrambe.
Cominciamo dal disco. Ci sono otto canzoni. In un brano, “Gli invisibili”, c’è anche la partecipazione di Cristiano Godano dei Marlene Kuntz. Com’è nata questa collaborazione?
Con Cristiano condivido un simile approccio allo “stare in musica” oltre alla consapevolezza che fare quello che facciamo significa portare avanti un mestiere piccolo, invisibile (come cantava Fossati a proposito dell’ambizione muta del compositore, “invisibile” appunto). Il nostro non è solo un mestiere, ma anche e soprattutto una condizione di vita che non è affatto semplice continuare a scegliere in tempi fortemente svuotati di significato come quelli che stiamo attraversando. Tempi che non esito a definire violenti e per violenti intendo di superficie, incuranti di tutto ciò che si muove oltre l’apparenza, di tutto ciò che richieda un qualsiasi sforzo interiore per essere compreso o più di quindici secondi per essere decifrato. Mi pare che la coerenza, il confronto con la propria coscienza artistica, con la responsabilità del dire o anche semplicemente con le proprie emozioni siano materia del tutto fuori moda, invisibile e quindi a suo modo fortemente auspicabile. Spesso mi trovo a dialogare di questi temi con Cristiano con il quale condivido anche un piano di realtà dove la nostra amicizia è di supporto al percorso di entrambi. È proprio questo genere di dialoghi ad aver accompagnato la scrittura de “Gli invisibili”.
I veri Invisibili di cui ho scritto e di cui abbiamo voluto cantare assieme non siamo però in definitiva nemmeno noi. Noi, nelle nostre difficoltà, siamo ancora inscrivibili alla categoria dei privilegiati. Gli invisibili a cui desideravamo dar voce sono invece i veri invisibili della terra ovvero coloro che non hanno alcuno spazio per poter dire ciò che, ad esempio, ho la fortuna di poter dire io con questa intervista sulle vostre pagine. Donne, uomini e bambini che non hanno voce poiché gli è stato tolto anche il fiato. Invisibile è chi soffre dimenticato ai bordi della società ma che, nonostante tutto, ha deciso di non arrendersi.
Invisibile, ma non sconfitto. È questo il monito che muove il brano in parallelo a quello che accade nel secondo capitolo del romanzo. E’ una storia di resistenza quella che desideravo raccontare, una resistenza vera. La resistenza del resto, può essere solo vera per sua stessa definizione. Non esiste resistenza di facciata e non può essere invisibile chi viene visto e ascoltato. È compito semmai di quest’ultimo dare voce a chi voce non ha.
Passiamo al libro. Il protagonista del romanzo sei tu, che, fra le pagine del libro, ti trasformi in un personaggio caratterizzato da un dono oscuro che attrae l’attenzione di chi è stanco di vivere e che ritrova in te un complice ideale: un “facilitatore di suicidi”. Come è nata questa narrazione un po’ dark?
Qualche giorno fa ho ritrovato dei vecchi provini di un me poco più che maggiorenne e riascoltandoli mi sono stupito di come, i temi fondamentali del mio scrivere, fossero già tutti lì. In particolare, in una di quelle canzoni, parlavo di una giovane donna che si era tolta la vita. Parlavo di suicidio perché mi sembrava normale farlo. Evidentemente non lo era però per chi avrebbe dovuto o potuto prendersi carico di sviluppare con me quei progetti. Ricordo bene i volti di alcuni importanti discografici ai quali mi ero ritrovato a far ascoltare i miei provini. Ricordo il loro disagio. A quei tempi l’ascolto in presenza era cosa che avveniva abbastanza spesso. Non c’era internet e capitava quindi di riuscire a strappare un appuntamento all’A&R di turno per ascoltare il proprio materiale e parlarne di persona. E così mi presentavo con queste canzoni dai testi sfrontati e fuori da ogni rotta inseriti nel contesto di un sound rock wave che, lì per lì, li faceva sussultare sulla poltrona. La musica arrivava prima delle parole stupendoli, ma le parole rompevano in fretta quel sottile filo di interesse spaventandoli, letteralmente. Le prime volte non capivo cosa fosse accaduto poi iniziai a comprendere e ad aspettarmi quella reazione. La cosa più strana era però che, invece di restarne deluso, in qualche modo vedevo forza in quello a cui stavo assistendo. Era una risposta fisica la loro. Non che fosse scomposta o sgarbata, tutt’altro. Era però inevitabile e sentita.
Credo siano stati quei primi confronti con l’esterno su temi così delicati ad avermi spinto a mantenere la rotta e dedicarmici sempre di più laddove avrei potuto essere invece scoraggiato e desistere. Il pensiero del suicidio ha preso così ai miei occhi la forma di un luogo-non luogo, di un tempo sospeso in cui è possibile riscrivere tutto, persino la vita. Il luogo di un sogno che è poi l’auspicata “nuova vita che verrà” di cui scrivo. Una dimensione interiore che, l’ho scoperto soltanto tempo dopo, per alcune persone inclini al suicidio rappresenta un pensiero già di per sé confortante. Ben lungi dal voler tessere le lodi di un gesto così estremo, sentivo però, con sempre maggiore chiarezza, che più ne avessi parlato più avrei reso accettabile e normale parlarne. A quel punto sarebbe stato più semplice poter essere d’aiuto a qualcuno. In fondo è anche qui il tema dell’invisibilità a fare ritorno. Come possiamo aiutare chi non vediamo? Come possiamo tendere una mano a chi si nasconde per paura di farsi trovare, per paura di un rifiuto o per non mettere a disagio il discografico di turno?
Molto bella l’ambientazione. Sullo sfondo si alternano città e paesaggi mitteleuropei. Ho letto nella presentazione che per scrivere il romanzo e i testi dell’album ti sei recato a Praga, Vienna, Parigi e sul Lago di Bled in Slovenia. Cosa hanno di affascinante questi luoghi?
Sono felice di sapere che l’ambientazione ti abbia colpito perché i luoghi hanno un’enorme influenza su quello che scrivo. La dimensione del viaggio è propedeutica alla scoperta e quindi alla scrittura. Allo stesso modo la fascinazione che può sprigionare un luogo ai miei occhi è solo parzialmente inscritta nell’idea che ho di quel luogo sulla carta. È attraversandolo o, meglio ancora vivendoci, che riesco a scoprirne l’anima per capire se risuona con me. Questo è successo in particolare con Praga, una città che sento profondamente corrispondente e dove, ancora oggi, penso spesso di volermi trasferire. Parigi è sulle mie rotte personali da tempo e il Lago di Bled è un rifugio di cui sento il bisogno. Vienna invece è una città con la quale non riesco a entrare mai pienamente in sintonia. La sensazione che ho attraversandola è di timore reverenziale, quasi non riuscissi a comprenderla davvero. Non riesco ad afferrarla o forse è lei a non volersi far afferrare da me. Un leggero disagio mi attraversa quando sono in città, ma anche questo è stato prezioso a scrivere il quarto capitolo e la corrispondente canzone dell’album “Stanotte a Vienna” che proprio di questo sottile disagio si nutre trasformandolo in quello di cui racconto.
Infine, una domanda sui supporti. In un tempo in cui si cerca di spingere tutto sul digitale fortunatamente c’è chi come te continua a investire e credere nei supporti di ascolto e lettura tradizionale. Mi ha molto colpito il fatto che il disco esce anche su musicassetta. Come è nata questa scelta?
La cassetta è il supporto con cui ho iniziato ad ascoltare musica. A differenza del vinile, aveva il vantaggio di potermi seguire ovunque e farsi colonna sonora delle mie avventure di bambino. Era poi anche il contenitore originale della “playlist personale”. Un concetto nato a quei tempi e soprattutto nato su nastro dove per la prima volta era possibile organizzare la musica che si preferiva confezionando delle vere e proprie raccolte. Memorabili e magiche come oggi nessuna pratica digitale di “selezione tracce per mood” potrà mai restituirci. Come dico spesso sono un nostalgico e sento enormemente la mancanza dei piccoli gesti che davano vita a un modo di condividere che era sempre tangibile e reale. Aver avuto la possibilità di stampare “Torno per dirvi tutto” anche su nastro grazie al medesimo amore condiviso dal mio discografico Paolo Izzo di Riff Records, è stata per me una gioia enorme che, qui si può davvero dire, mi ha fatto tornare bambino.