Tra le pianiste internazionali più significative di questi ultimi anni, l’italiana Maria Perrotta occupa un posto di prestigio. Sono ben quattro gli album incisi per la Decca, che l’hanno fatta conoscere e apprezzare a un vasto pubblico. Senza considerare i numerosi concerti e collaborazioni. Una carriera, quella della pianista di Cosenza, che parte da lontano. L’abbiamo incontrata in un momento di pausa della sua tournée.
Qual è il suo rapporto con il pianismo di Schubert in considerazione del successo della sua incisione con la Decca?
Il pianismo di Schubert (soprattutto quello dell’ultima Sonata che è presente nel disco) è per me un meraviglioso gioco di semplicità e illusioni. La materia sonora si espande continuamente e l’interprete con grande semplicità e essenzialità deve cercare di “tenerla ” a terra senza soffocarla. Schubert usa il pianoforte con pudore, avendo caro soprattutto il canto.
Considera la sobrietà un elemento fondante del repertorio che ha affrontato? Penso ad autori come Beethoven e Chopin.
Non so se sia la sobrietà, a dire il vero, l’elemento che considero fondante del repertorio che ho affrontato. Se per sobrietà si intende qualcosa di ” misurato”. Mi sono ritrovata spesso ad affrontare un repertorio molto denso, questo sì. Amo costruire programmi da concerto che siano come dei veri viaggi. Qualcosa in cui immergermi in modo totalizzante.
Di recente lei ha eseguito in maniera eccezionale, a Sulmona, la Sonata Op. 111 di Beethoven, che è un monumento del repertorio pianistico. Come ci si prepara ed affronta questa opera? Una delle caratteristiche della sua interpretazione, ci è parsa essere la nitidezza dell’aspetto ritmico: è d’accordo?
Nella preparazione di un’opera di tale complessità si può dire che prende forma il lavoro di una vita. Nel senso che è un vertice del pensiero musicale e quindi vi confluiscono riflessioni varie. Per esempio, tutto il lavoro fatto sul linguaggio bachiano senz’altro mi offre delle chiavi di lettura e mi suggerisce soluzioni. E allo stesso tempo la ” visionarietà” potente di questa opera può essere una strada interpretativa che attinge e spazia verso un immaginario “futuro “. In generale amo lavorare sulla flessibilità di un’opera. Amo verificarne gli equilibri di pesi e contrappesi e “vederla” il più possibile da diverse angolature per poi riuscire a vivere un momento di vero abbandono, operando la vera scelta esecutiva quasi all’ultimo momento davanti al pubblico, sapendo in un certo senso solo ciò che non devo fare ma aperta dunque a diverse possibilità. Quando inizio a suonare mi piace sentire fino in fondo la sensazione dell’immediato. L’arte appartiene a “quell’istante”. Che l’aspetto ritmico sia stato nitido nell’esecuzione di Sulmona mi rende soddisfatta dato che a mio parere è uno degli elementi usati da Beethoven per costruire e poi dissolvere. E il senso di accumulo dell’energia ritmica che poi si dissolve in lunghe distese è un aspetto fondamentale di questa Sonata, secondo me.
Questo aspetto identificativo le sembra valevole anche nel suo approccio interpretativo in Bach (pensavamo alle Variazioni Goldberg)?
Certamente la chiarezza ritmica anche in quest’opera è un aspetto importante. Ma anche le Variazioni Goldberg le ho esplorate in vari modi.
Negli ultimi anni si è dedicata molto anche al repertorio contemporaneo. Penso ad autori come Girolamo Deraco e Paolo Cavallone. Non è una scelta scontata. Cosa l’ha spinta ad avvicinarsi a questi autori?
Il mio interesse per la musica di oggi lo vivo come una necessaria apertura al presente, occasione di scoperte e di evoluzione anche dell’aspetto strumentale che mi coinvolge molto, perché anche le tecniche esecutive si arricchiscono affrontando nuovi repertori. Collaboro con diversi compositori, come Gabriele Cosmi, Marco Di Bari, Antonio Giacometti, Benoît Menut, Graciane Finzi…
L’incontro con Paolo Cavallone è avvenuto a Parigi. La nostra affinità musicale è stata immediatamente sentita. Nei suoi lavori trovo sia l’immediatezza del lirismo, che la complessità della struttura. L’incontro con Girolamo Deraco è avvenuto grazie all’evento di Sulmona. La sua musica mi affascina nell’apertura che ha verso il gesto musicale che si fa teatro e immagine prima e oltre il suono.
Di recente lei ha eseguito in prima italiana, alla rassegna “Incontri musicali internazionali” a Sulmona, “Immagini d’argilla” di Paolo Cavallone. Una composizione di non facile interpretazione, ma che lei ha saputo tradurre da un punto di vista formale in modo molto scorrevole, nonostante si trattasse di un lavoro basato su piccoli frammenti. Cosa ne pensa e come è nata la collaborazione con il compositore?
Immagini di argilla è una composizione di grandissima coerenza e unità. Pone problematiche interessanti dal punto di vista del timbro e della flessibilità ritmica. Ogni dettaglio è strutturale e la continuità va percepita infatti proprio nella grande coerenza di ogni elemento cercando di far percepire la continua trasformazione geometrica degli elementi. Come dicevo prima col Maestro Cavallone ci siamo incontrati a Parigi.
Attualmente lei vive a Parigi e tiene concerti in tutto il mondo. Avrà sicuramente una sua opinione sulla promozione della musica in Europa e nel mondo. Cosa necessita il nostro paese per una migliore divulgazione della cultura musicale?
Non saprei dire. Perché credo che da un lato ci si lamenta spesso della mancanza di interesse politico verso la cultura. Dall’altro personalmente credo che più che altro è lo svuotamento della parola cultura (anche musicale ovviamente) che più mi impensierisce. Quindi non è solo un problema di promozione e divulgazione ma anche e soprattutto un problema di libertà e di significato delle cose.