Si intitola “Rhythm is our business” il secondo disco del progetto The Jazz Russell recentemente pubblicato dall’etichetta Filibusta Records. La formazione è nata grazie a un’idea del chitarrista Filippo A. Delogu ed è completata da Andrea Nuzzo all’organo Hammond, Alfredo Romeo alla batteria e Light Palone al contrabbasso. In questo lavoro la band è alle prese con un repertorio di jazz classico e tradizionale suonato però con un approccio moderno. Ecco il racconto di questa nuova avventura.
Come nasce The Jazz Russell?
Dopo tanti anni passati ad accompagnare gli altri, ho pensato ad una formazione di soli musicisti di sezione ritmica, con poco ego e naturalmente portati a mettersi a disposizione degli altri. La mia visione dei “Jazz Russell” è “nessun musicista al centro, tutti centrali contemporaneamente”. In sintesi, siamo una ritmica che si fa solista.
Quali sono i vostri riferimenti musicali?
Ciascuno di noi ha i suoi eroi musicali… Il Jazz però è una tradizione orale, credo ci abbiano influenzato soprattutto i musicisti della scena romana che abbiamo avuto la fortuna di incontrare e accompagnare.
Come vengono composti e arrangiati i brani?
Nel disco ci sono 3 brani originali, 2 miei (Adriano, Walter) e uno di Alfredo Romeo (Bluesy Drums). Le idee nascono individualmente, ma i brani vengono poi dati in pasto al gruppo che li può anche stravolgere. Siamo una formazione – per quello che riguarda la musica – democratica, ognuno accetta di vedere le proprie idee influenzate e modificate dagli altri. Se poi non si riesce a fare una sintesi, metto io il punto finale, ma è successo raramente.
L’album è un vol. 2, c’è stata un’evoluzione?
Si. Il primo disco è stato registrato in un giorno, senza prove e nei ritagli di tempo tra i mille impegni di tutti noi in progetti musicali di altri. Al secondo disco arriviamo con maggiore consapevolezza del percorso che vogliamo fare insieme, e con un anno di pandemia alle spalle, durante la quale siamo riusciti – rispettando tutte le regole – a vederci e provare.
Il titolo dell’album cosa significa?
E’ il titolo di un brano poco frequentato, ci è sembrata una citazione spiritosa che sintetizza il nostro concept di ritmica che si fa solista.
Come si colloca l’album come genere, nell’ambito jazz?
Ci piace sfuggire alle categorie, ma potrei azzardare che il nostro è un jazz tradizionale fortemente rivisitato. Non abbiamo velleità filologiche né desiderio di coerenza, suoniamo quello che ci piace come ci piace, e speriamo di coinvolgere chi ascolta. Credo che i giganti del jazz che veneriamo avessero un approccio simile, che invece sembra meno presente oggi, almeno nel tradizionale. Si tratta il jazz tradizionale come una musica classica: “si fa così”. Noi vogliamo fare come ci pare e non ci sentiamo nemmeno in colpa.
Quali sono le ispirazioni avute in questo lavoro?
Lo spirito di squadra, la consapevolezza di classe della sezione ritmica.
Quali sono le contaminazioni?
Ci siamo contaminati tra noi, ognuno ha portato il proprio bagaglio musicale e ha influenzato gli altri nel modo di suonare.
Quale aspetto del musicista preferisci?
La ricerca, il continuo cambiamento. E la condivisione con gli altri, soprattutto con chi ascolta.
Di base siete un trio, ma pensate, viste anche le sonorità, di sperimentare formazioni più ampie?
Siamo un quartetto che suona in varie configurazioni: dal trio di chitarra al trio di organo fino al quartetto con Rhodes. Ci piacerebbe coinvolgere degli ospiti, costringendoli però a stare al nostro gioco, ovvero sentirsi parte della ritmica per qualche brano.