Pubblicato lo scorso febbraio, “Di questi tempi” è il disco d’esordio di Evocante, nome d’arte di Vincenzo Greco, docente Luiss che fa musica da circa trent’anni. Un progetto in cui la canzone d’autore si sposa con la musica rock aggiungendo sonorità psichedeliche e sperimentali. Ne abbiamo parlato con l’autore dei brani che ci ha raccontato come è nata questa avventura.
Vincenzo per prima cosa parliamo della storia di questo progetto: come è cominciata questa avventura?
Un po’ per gioco, un po’ per necessità. Il gioco sta nel mettersi in discussione, non proprio giovanissimo, a pubblicare un album di canzoni. Qui entra in gioco la necessità, perché io da sempre ho una urgenza espressiva e comunicativa, che mi ha portato a insegnare, a scrivere libri, persino a girare un docufilm, a tenere rubriche in radio, e altre attività varie, e che, cosa più importante, mi fa scrivere canzoni da quando sono ragazzino, e che solo ora, anche su insistenza di chi le ascolta, mi sono deciso a fare uscire fuori dal ristrettissimo ambito di chi viene ai miei concerti. Potevo pubblicare un “best of” e invece ho pubblicato le canzoni che più ritenevo adatte a vedere la luce in questo momento: il titolo non è affatto casuale, proprio perché in questi brani si parla dei tempi che viviamo. E infatti molte sono state scritte proprio in quest’ultimo anno. Per le altre, c’è tempo.
Evocante è un titolo che già ci fa capire il senso di questo nuovo disco: ci vuoi spiegare se ha un significato particolare per te?
Evocante è il nome d’arte con cui mi presento. Il disco si intitola “Di questi tempi”. Il mio nome, Vincenzo Greco, mi sembrava troppo…da cantautore. Oddio, non è che voglia prendere le distanze dal mondo in cui sono nato – io artisticamente sono nato nel Folkstudio, e per me è motivo di vanto. Però per un disco rock, genere al quale sono passato da molti anni ormai, coniugandolo pur sempre con le origini autoriali, pensavo fosse giusto uscire con quello che è il mio pseudonimo da molto tempo. Anche per dare lustro e visibilità al gruppo con il quale suoniamo dal vivo. Lessi dei “nomi evocanti”, contrapposti ai “nomi numerici”, su un libro di filosofia: mentre i secondi non dicono nulla di più di quel che dicono, i primi dicono molto di più. Il nome evocante, che non è altro che la parola, apre un mondo, cosa che non fanno i freddi numeri. La parola ha questo potere di evocare, in ciascuno di noi, cose che abbiamo già dentro. È come fare riaffiorare una parte di noi che mettiamo da parte. E sono sensazioni, memorie, speranze, intuizioni, paure, anche le più recondite. Spesso basta una parola a fare uscire fuori tutto questo mondo. Una parola, appunto, evocante. Io scrivo canzoni facendo molta attenzione alle parole e ai suoni, che hanno la stessa importanza delle parole, se non addirittura di più. Ecco in cosa credo di essere cresciuto dai tempi del Folkstudio e di avere superato i confini, per me troppo stretti, della canzone d’autore: i suoni, le musiche, non sono semplice sostegno delle parole, non sono mai casuali, messi lì tanto per, proprio perché assegno anche alla musica questa funzione di evocare. Cosa, lo decide l’ascoltatore, a disposizione del quale io metto le parole e i suoni: sarà poi lui a far partire il flusso di ciò che stimola in lui l’ascolto delle mie canzoni. Se ci penso bene, uno dei commenti più belli che ho ricevuto è stato quello che le mie canzoni sono persino terapeutiche, nel senso che, pur inquietando, stimolano e mettono in grado di darsi risposte. Pare che una canzone come Salvami abbia avuto un effetto benefico in un momento difficile. Sarà per l’atmosfera sospesa, sarà perché lì parla il cuore, quasi sottovoce. A me tutto questo ovviamente fa piacere e conferma che era il caso di farla uscire fuori.
Un disco a metà tra musica rock e canzone d’autore: ce lo vuoi descrivere brevemente?
Inizia con quello che chiamo “effetto spiazzamento” – che poi è anche il titolo dello spettacolo che porteremo live – ovvero con un brano melodico, orchestrale, con un testo di apertura all’ascolto. E poi, e qui parte lo spiazzamento, iniziano i brani sui tempi di oggi, e quindi sul populismo becero, sull’autoreferenzialità, sulla presunzione di chi ha la risposta per tutto, senza farsi mai domande, sulla mancanza di ascolto, e quindi sulla solitudine, anche quella intellettuale, sulla mancanza di complessità, sui paradossi dell’informatica, che da un lato ci facilita le cose e dall’altro ci complica i rapporti, fino ad annientarli, sulla corsa a perdifiato che ci toglie tempo per tutto, sulla attenzione maniacale verso tutto ciò che può portare denaro. Queste tematiche sono affrontate con brani rock. Poi l’atmosfera recupera il lirismo iniziale, e torna alla canzone d’autore, con brani più introspettivi, che sono piccole luci di speranza. Non mi andava di lasciare l’ascoltatore troppo amareggiato. Anche se io lo sono molto, e infatti quei brani servono anche a me, per non disperare del tutto su come sta andando la nostra società.
Quali sono le principali tematiche che affronti con le tue canzoni?
La linea unificante le canzoni – si tratta infatti di un concept album – è una riflessione sui tempi che viviamo, stimolata da una domanda: come stiamo sfruttando la nostra occasione di vita? Io vedo molti di noi – in mezzo mi ci metto anche io, pur se qualche consapevolezza l’ho acquisita e una svolta forte l’ho data alla mia vita – immersi in un sonno profondo fatto di urgenze quotidiane che sono niente in confronto a quello con cui dovremmo misurarci. Non ci chiediamo mai che cosa sarà di noi dopo la morte. Non ci chiediamo mai se in passato siamo stati qualcosa o qualcun altro. Non ci chiediamo mai il senso di questo nostro passaggio nel mondo. Una risposta non può essere nel pagare le bollette, nello scapicollarci per arrivare puntuali a un appuntamento di lavoro, nel cercare modi di fare soldi. Eppure le vite di tanti sono prese da queste cose: il novanta per cento delle cose che si fanno attiene a gestione del denaro (proprio o altrui). Ebbene, il tempo passa, gli anni passano, e noi facciamo più o meno sempre le stesse cose, che ci annoiano pure, cadendo sempre più nel sonno. E la vita trascorre “nell’insignificanza, nell’anomia dell’apparenza”, come dico in “Di questi tempi”. In questo, l’informatica avrebbe potuto aiutarci, facilitando molte nostre occupazioni, e lasciandoci quindi il tempo per dedicarci alle grandi domande, che poi sono riassumibili tutte in un “io chi sono?”, “io chi vorrei essere?”, “io cosa vorrei fare?”. E invece alla fine siamo riusciti pure a diventare schiavi di essa e dei suoi strumenti. Basti pensare alle ossessioni che creano i social, di apparire, di esserci. Io quando leggo di certe sindromi, come quelle da iperconnessione, o quelle che vengono create dall’ansia di dover leggere, e subito rispondere, ai messaggi di Whats’App, mi preoccupo molto: ma veramente stiamo fornendo a questi strumenti la nostra gestione? Per non parlare della memoria, che abbiamo delegato ai motori di ricerca: ora è un algoritmo che decide cosa ricordare e cosa no. E questo avrà ripercussioni anche sulla memoria collettiva.
Tutto questo sta modificando il concetto di tempo, ormai ridotto a mera istantaneità. Vale solo per l’attimo, che sia quello del like, dell’ascolto dei primi dieci secondi di una canzone (i più ascoltati, secondo le statistiche delle piattaforme), dell’ascolto che dedichiamo all’altro, e persino a noi stessi. Sempre distratti, presi dal profluvio di stimoli, quasi mai veramente interessanti, provenienti dall’esterno, social o no che siano. Stimoli costruiti apposta per tenere sempre viva l’attenzione, ma in modo passivo, mai in modalità di vero ascolto rielaborativo e partecipativo. Si chiede attenzione, ma non si chiede riflessione. Il tempo è riflessione, invece, E noi non dedichiamo più nulla alla riflessione. E quindi, abbiamo perso il senso del tempo.
Corollario di tutto ciò è che questa cancellazione di riflessione e di approfondimento delle cose e dei pensieri porta tanti a sparare sentenze su tutto, senza pensarci neppure un attimo sopra: “zero domande per troppe risposte” canto in “In piazza”. Qui ha gioco facile il populismo, che è la deriva ideologica del popolare (che invece amo): risposte facili a temi complessi. E qui ha gioco facile il sentirsi, da parte di molti, esperti su tutto: dimenticando che per conoscere bene le cose ci vogliono anni di studio, ormai molti si illudono che dopo qualche minuto di lettura di un qualsiasi sito internet abbiano conoscenze, e le spacciano pure per grandi verità. Anzi, il fatto di non aver passato anni a studiare è, per qualcuno, un motivo di vanto: ormai, chi trascorre anni sui libri è considerato uno sfigato, quando va bene, perché quando va male è un “servo dei poteri forti e dei professoroni”. Bieco populismo, al quale io oppongo, persino con rabbia, versi come; “odio la gente ed amo le persone, voglio una società e non l’ammasso, lontano da me le tentazioni nazional-general-populistiche”. Insomma, con questi brani mi piacerebbe dare uno schiaffo rigenerante a qualcuno, chi ancora si può salvare da questa deriva verso il nulla.
Vuoi parlarci anche dei tuoi riferimenti musicali?
Alcuni sono sotto gli occhi, anzi le orecchie, di tutti: sicuramente Franco Battiato è stato il mio principale punto di riferimento artistico. Ma sempre più capisco quanto la doppietta CCCP/CSI abbia in me avuto influssi di ogni tipo: musicali sicuramente, soprattutto i secondi, ma anche letterari, perché un tipo come Giovanni Lindo Ferretti a me ha aperto un mondo – a proposito di parole evocanti – e continua ad aprirlo, pur non concordando con lui su alcune cose. Anzi, più non concordo con lui, più alcune sue idee mi stimolano a chiedermi se io sono così sicuro delle mie : è uno che ha il potere, salvifico per me, di farmi mettere in discussione le convinzioni che credevo acquisite. O per darne più mature conferme, o per abbandonarle. Poi, tanto pure i Pink Floyd, soprattutto quelli psichedelici dei primi anni ’70, e Roger Waters come autore di testi e di ragionamenti che si snodano tra le canzoni. Springsteen, dal quale sono molto distante a livello musicale quanto vicino a livello emozionale. Negli anni ho avuto un debole per gli Smashing Pumpkins, per Peter Gabriel, per il Battisti panelliano, per i Bluvertigo (Morgan, torna quello di prima!!), più recentemente per il primo Gazzè. E per alcuni cantautori. De Gregori è stato come la varicella, giovanile, inevitabile, ma poi si guarisce. Non sono invece mai guarito da quella raffica di capolavori che tra fine anni 80 e tutti gli anni 90 ha sfornato Ivano Fossati. Pensa che sono rimasto così male per il suo addio alle scene, molto sincero, opportuno direi, quanto per me doloroso, che solo di recente ho ripreso ad ascoltare le sue canzoni che preferisco (non le ultime, l’ispirazione era finita da un po’). In generale, mi piace molto la musica non strutturata e legata a schemi fissi, come per esempio quelle canzoni fatte con strofa-ritornello-strofa-bridge-ritornello-assoletto finale. Questo schema ha ucciso la creatività. Una volta un produttore voleva convincermi che dovevo anche io aderire a questo schema, per avere successo. Era convinto della cavolata che diceva come lo è un venditore di pentole in un programma televisivo. Puoi ingabbiare l’arte e l’ispirazione artistica in uno schema, peraltro fisso? Forse è stata una reazione, ma nelle mie canzoni raramente c’è questo schema. Quando c’è, come è giusto che sia, è sincero, non frutto di calcolo. Altrimenti la canzone si snoda da sé, di passaggio in passaggio, l’attenzione deve essere tenuta costante per tutto il brano, altrimenti diventa tutto uno stanco attendere un ritornello orecchiabile e nulla di più. Su questo, la lezione del prog, nonostante certe sue derive un po’ artefatte e noiosette, e ancora più della psichedelia è ineguagliabile: io spero di averla fatta mia, come lezione di vita, prima ancora che musicale. Ciò premesso, devo anche dire che sarebbe per me deludente se qualcuno vedesse in me solo il frutto dei miei ascolti. Una cosa è riferirsi a qualcuno, ed è inevitabile e sacrosanto, altra cosa copiare. E io credo di avere una mia identità, un po’ come un albero le cui radici sono ben riconoscibili ma i cui frutti sono comunque nuovi e originali, magari come quei frutti che, nel prendere un po’ da una pianta e un po’ da un’altra, molto diversa, acquisiscono una loro fisionomia. Del resto, a 20 anni si può copiare qualcuno, persino scimmiottare, a 50 sarebbe patetico.
Parlaci adesso del tuo percorso musicale: come ti sei avvicinato alla musica e poi come hai proseguito nel corso del tempo
Le prime composizioni musicali, con un testo appioppato lì tanto per, le ho fatte a undici anni, con quella specie di strumento che era il flauto dolce (che suono schifoso, eternamente stonato…). Ricordo che l’insegnante di musica le fece suonare a tutta la classe, con mio grande imbarazzo. Poi per tutta l’adolescenza ho fatto le prove, senza mai suonare dal vivo. Studiai chitarra classica, e poi passai alla elettrica. E scrivevo canzoni. Tante, tantissime. Tutte nel cassetto. Poi a Palermo, a casa di mia zia Ofelia, davanti il pianoforte di famiglia (da parte paterna tutti musicisti e direttori d’orchestra), la folgorazione: senza mai aver suonato il pianoforte, mi misi a suonarlo come se lo suonassi da tempo. Stetti lì per ore, non volevo più staccarmi. Uscivano dalle mie dita melodie e armonie, e soprattutto sapevo come e dove mettere le mani. Evidentemente stava agendo una memoria genetica, non so spiegarmelo diversamente.
Poi i primi concerti nelle feste di quartiere, e la rivelazione e il superamento, almeno apparente, di una atavica timidezza: il palco era la mia casa, lì non avevo paura di nulla ed ero io, senza alcuna maschera.
Poi c’è stato il Folkstudio, palestra di rigore e di serietà, Si suonava anche se non c’era pubblico, Giancarlo Cesaroni, il fondatore, era rigorosissimo su questo: l’arte si fa sempre e comunque, al di là dei numeri. E niente cibo mentre si suona. Ora invece vedo che ci sono formule di concerti in cui ci si esibisce tra una margherita e una capricciosa: formula un po’ mortificante per l’arte. Ma tant’è… Le esperienze più belle e formative sono stati i videomusiracconti: lungometraggi tutti girati e montati da me mentre io, da solo o con il gruppo, suonavo dal vivo, in sincrono con il filmato. Il quale era strutturato insieme alla musica: pensa che spesso ad ogni cambio di accordo corrispondeva un cambio di scena. Difficile coordinare il tutto. Però è stato bellissimo vedere il pubblico preso dalle immagini. Mai credo di essere riuscito a catturare l’attenzione di tante persone in questo modo così totalizzante: un’ora e mezza di concentrazione assoluta, come accade durante un film. Prima o poi riprenderò i videomusiracconti, magari in altra forma, perché ripetermi non mi è mai piaciuto, mi annoia. Ma ora è il momento della musica dura e pura, senza orpelli di alcun tipo. La cosa che più mi piace degli Evocante live (oltre me, Luigi Feldmann alla batteria, Luca Silvestri alla chitarra elettrica, Barbara Vanorio al basso), il gruppo con il quale suoneremo presto dal vivo, è che si tratta di musicisti che, per un motivo o per l’altro, avevano tutti smesso. Intorno alle mie canzoni si è creata un’alchimia, anche personale ed empatica, che ha fatto tornare voglia a degli ultracinquantenni di lungo corso di riprendere in mano lo strumento, di riprendere a fare le prove, affrontando traffico e impegni vari, e di tornare ad assaggiare l’adrenalina e la tensione del palco. C’è molta curiosità intorno a noi, la percepisco e ce l’abbiamo noi stessi, su quello che potrà succedere nei concerti. Che stiamo preparando minuto per minuto, senza lasciare nulla al caso. Pensa che una volta su una sola parola di una canzone siamo stati tre ore a provare come poteva venire suonata in modo che risaltasse meglio. Siamo molto diversi, ma liberi, senza che nessuno ostacoli l’altro, e uniti, con un gran rispetto verso le canzoni e per me, che sono l’autore. Nessuno le vuole stravolgere o dare significati non propri. Anzi, c’è così amore per i pezzi che pare una gara a farli venire il meglio possibile, meglio che sul disco, come effettivamente sarà. Non è una cosa scontata. Anzi…
Un’ultima domanda per proiettarci nel futuro. Come potrebbe evolversi il tuo progetto? E soprattutto stai già pensando a qualcosa di nuovo?
Il disco “Di questi tempi” lo porteremo dal vivo, la prima data sarà sabato 14 maggio al B-Folk di Roma in via dei Faggi, 129/a, locale compatto, a contatto immediato con il pubblico. Suoneremo anche altre canzoni che fanno parte da tempo del mio repertorio, a cui darò una consacrazione ufficiale e duratura, mettendole su disco, con arrangiamenti nuovi. Questo è sicuro, perché lo devo a me stesso e a questi brani che per troppo tempo hanno avuto solo l’esposizione dei concerti per pochi e di stare sul mio profilo YouTube: meritano ben altro, perché in definitiva si tratta delle mie migliori canzoni. Una canzone come Dialettico, per esempio, merita molto. Ma anche Sette minuti di sogno, Chiarificazione, Indefinibile, In Es. Tutti brani che anticiperemo dal vivo, come si faceva una volta. Contemporaneamente sto già lavorando a un lavoro solo strumentale, anche di questo c’è già un assaggio su YouTube, intitolato Viaggi sonori, dove l’impronta del Battiato sperimentale è molto marcata. E in questo caso potrei riprendere il discorso del videomusiracconto, da unire a questo flusso di musiche a metà tra l’elettronica e la classica. Insomma c’è tanta carne al fuoco. Tanto per citare una mia canzone, ho perso così tanto tempo in cose insignificanti e sterili da non potermi più permettere di perderne altro, e quindi i prossimi anni saranno tutti di ricostruzione, rielaborazione e nuova creazione e produzione della mia musica. Me lo devo, perché sono stato troppo tempo a relegarlo al ruolo di hobby: ora è molto di più, ha molto più peso nella mia vita, in modo inversamente proporzionale a quanto di solito accade in età più giovane. Ma le cose vanno come devono andare e quindi, per dirla con Max Pezzali, nessun rimpianto, nessun rimorso, l’importante è andare avanti con la finalmente maturata consapevolezza di avere quasi un dovere verso la musica e di fare qualcosa che vale la pena fare. Non solo per me, ovviamente, anche se il primo a cui devo questo impegno è quel bambino che a 11 anni scriveva già musiche per i suoi compagni di scuola e che forse è stato lasciato troppo in disparte. Ora l’ho ripreso in braccio e ho l’obbligo, come con i figli, di crescerlo, come dice il codice civile, “secondo le sue aspirazioni”.