Intervista a Giovanni Bogani sul suo nuovo libro dedicato alla madre

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Volto noto televisivo come critico cinematografico su Rai1 e giornalista affermato, soprattutto sul quotidiano La Nazione. Ma per me Giovanni Bogani è anche un amico ed anche un valido cantante, spesso protagonista di jam notturne a raccontare (con la sua fida chitarra) della grandezza compositiva dei nostri più valenti cantautori. Da poco è uscito un suo nuovo libro, dove cinema e musica sono il corollario di ben altro…


Ancora un Attimo, per favore” è il tuo più recente libro: come è nato? E’ nato d’istinto. Senza pensare a scrivere un libro. È nato da alcune righe, che ho scritto il giorno in cui mia madre è scomparsa. Aveva un infarto in corso, il cuore non ce la faceva più. L’ho convinta a farsi portare all’ospedale di Careggi a Firenze: appena siamo entrati nella stanza del pronto soccorso, il cuore ha smesso di battere. I medici hanno tentato, a lungo, di rianimarla. Invano. Mi hanno detto di aspettare, in una stanzina non molto lontano. E in quella stanzina c’ero solo io, il mio dolore, il mio stupore. Il non avere ancora realizzato quel passaggio da un ‘prima’ a un ‘dopo’. A un mondo senza di lei. E istintivamente, quasi rabbiosamente, ho fatto l’unica cosa che ho sempre cercato di fare, nella vita: scrivere. Per trattenerla, un attimo ancora, almeno nelle parole.


Ovvio chiederti quali le differenze con gli altri libri che hai scritto ed a quale più si avvicina
…E’ diverso da tutti gli altri, perché cerco di affondare in un mistero, che non ho mai capito del tutto. La profondità, la complessità della vita di mia madre, la persona che è stata più importante per la mia vita. E che, come spesso accade, non sono riuscito a capire mai del tutto. Ci sono state incomprensioni, rabbie, errori da una parte e dall’altra, fiumi di non detto, di parole non date, di carezze non regalate. E quello che poteva essere un rapporto sereno è stato, negli anni, la navigazione di una barchetta in una continua tempesta. Quella della mia adolescenza ribelle e rabbiosa: quella del suo non capirmi. Non è facile capire un ragazzino che vuole farcela da solo, che non chiede un centesimo, che se ne sta sempre chiuso in una stanza a scrivere. E che magari, un giorno, riuscirà a scrivere un libro.


Ci sono elementi di somiglianza con gli altri tuoi lavori? In realtà sì: perché ogni libro che ho scritto parte dalla realtà. Ogni libro che ho scritto racconta qualche cosa di vero, qualche cosa che mi è accaduta. Praticamente, senza romanzare niente. E allora, mi puoi dire, come fanno a diventare racconto, a diventare ‘letteratura’, se vogliamo usare un parolone? Perché ogni avvenimento, se lo racconti nel dettaglio, cercando di entrare dentro le porte che lascia aperte alla rivelazione, diventa importante. Ogni avvenimento della tua vita parla della vita di tutti, ogni piccola cosa rivela – se guardata con attenzione, e con coraggio, il coraggio di andare fino in fondo – abissi di verità. Quindi sì, è un libro che come gli altri parte dalla realtà. Altre volte erano viaggi, o un amore. Questa volta è un viaggio dentro il rapporto con mia madre. Cercando di immaginare anche la vita di lei in cui io non c’ero: la sua vita prima di me.


Famosi i tuoi interventi a Cinematografo (su Rai1 con Marzullo), le tue lezioni alla Scuola Immagina ed i tuoi articoli su La Nazione, ma .. cosa non conosciamo dell’attività di Giovanni Bogani? Per il resto faccio una vita da pensionato, o da adolescente. Scrivo, scrivo articoli, che mi danno da vivere. Vedo molti film, per dovere e qualche volta anche per piacere. Per combattere questa forzata sedentarietà, vado appena posso nei parchi fiorentini, sperando di fare un numero di passi sufficiente a mettermi al sicuro, almeno fino a domani. Vivo in solitaria ormai da due anni, una specie di navigazione dell’oceano senza fine, senza compagni di bordo e senza troppi strumenti. A volte mi ritrovo a parlare da solo, in casa. Altre volte suono canzoni con la mia chitarra, che è un altro modo di parlare da soli, ma un po’ meno da matti. Sogno sempre un futuro migliore, un’uscita trionfale da questa infinita adolescenza, da questa infinita attesa di una vita piena, piena di affetti. Di emozioni no, ne ho a profusione anche vedendo film, leggendo libri – mi stanno seppellendo – o ascoltando musica ..

Nel presentare il tuo nuovo libro hai scritto “la vita come una musica che si ascolta per la prima volta”. Logico chiederti quali sono stati cantanti con cui sei cresciuto e quali artisti invece ora ammiri di più… E’ curioso come le musiche che ti ricordi per tutta la vita non siano necessariamente dei capolavori. Ci sono stati tre momenti di svolta, nel mio amore per la musica. Il primo, che viene raccontato anche nel libro, è legato ad un’operazione alle tonsille, fatta quando avevo quattro anni. Per regalo, ricevetti quattro dischi a 45 giri, quattro canzoni che mi hanno segnato: ‘Azzurro’ di Celentano, ‘Vengo anch’io, no tu no’ di Jannacci, ‘La bambola’ di Patti Pravo e ‘Felicità felicità’ di Gian Pieretti, l’unico dei quattro la cui memoria si è un po’ perduta. La sua canzone mi piaceva molto, così come il lato B di ‘Vengo anch’io’, che si chiamava ‘Giovanni telegrafista’ ed era tratta da una poesia di un grande poeta brasiliano, Cassiano Ricardo Leite. Era una canzone assolutamente folle, malinconica oltre ogni limite. La storia di un uomo solo, che nel suo gabbiottino di telegrafista si innamorava di un amore impossibile, lontano, la sua Alba. Ecco, in fondo per tutta la vita anche io ho fatto il telegrafista, ticchettando sui miei tasti, e cercando la mia Alba.

E gli altri due momenti di svolta legati alla musica? A sette anni, due 45 giri che suonai fino a consumarli. ‘Tweedle Dee, Tweedle Dum’ di un gruppo scozzese che imitava un po’ i Beatles. Si chiamavano i Middle of the Road, e quella loro canzone piena di energia, di ritmo, mi piaceva da morire. E poi ‘We Shall Dance’ di Demis Roussos, il cantante greco dalla lunga barba nera e dai lunghi camicioni, un cantante ‘bizantino’, mi verrebbe da dire, che mescolava sonorità orientali e pop nella sua voce calda e ricca di ghirigori. Poi, un po’ più grande, ho iniziato ad amare i testi – e poi anche le musiche – di Francesco Guccini, le sue nostalgie, i suoi minuti ritratti umani, la genialità di Francesco De Gregori, le follie e le atmosfere metropolitane di Lucio Dalla, e non ce n’è stato più per nessuno. Forse, nei successivi trent’anni, sono riuscito ad innamorarmi ancora solo di Ivano Fossati, di Niccolò Fabi, de Le luci della centrale elettrica e di una giovane, localmente dottissima ed estremamente matura diciottenne: Casadilego.

Cosa pensi diranno i critici (ma anche il pubblico) di questo libro pieno di gioia, merendine, palloni e di Aristogatti? Vorrei che lo vedessero come lo hai descritto tu: un libro pieno di gioia, merendine, palloni e Aristogatti. Un libro che racconta una storia dolorosa, ma pieno di gioia e di vita. La gioia dell’infanzia e dell’adolescenza, che spero si senta scorrere, nelle pagine, più forte ancora del dolore della perdita.

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