“La Valigia dei Sogni” è l’ultimo disco del chitarrista Daniele Morelli, con la partecipazione del batterista Matteo D’Ignazi, uscito nel settembre 2021 per l’etichetta Off Record Label. Un progetto che rappresenta un viaggio dove il jazz si mescola soprattutto con la psichedelia e per certi versi anche con le tradizioni del Messico.
Partiamo dal titolo di questo disco, La Valigia dei Sogni: cosa rappresenta per te?
“La Valigia dei Sogni” è un disco nato spontaneamente con l’unica intenzione di investigare attraverso la musica delle sensazioni precise dando particolare importanza al ritmo, ai timbri e ai temi principali. L’assenza di lunghi soli improvvisati serve a scattare la fotografia su una particolare emozione o sensazione appunto. Penso che ci siamo riusciti. Poi la considero una valigia di brani, tutti nati durante le registrazioni stesse, dove per la prima volta mi sono dedicato a registrare interamente accompagnamenti, melodie e arrangiamenti vari alla chitarra. E’ stato un interessante esercizio di creatività e credo che dopo tanti anni facendo musica era il momento di fare un disco con brani corti e sintetizzare il discorso musicale. Mi intrigava anche la relazione tra la musica e i sogni. Nei sogni intrecciamo numerose esperienze della vita quotidiana, una sorta di spettacolo dell’inconscio sotto forma di rivelazioni, proiezioni simboliche oppure un collage di fantasie dell’immaginario, così come nella musica studiamo i vari codici di questo linguaggio e poi lasciamo che l’immaginazione e la creatività mescolino il tutto liberamente. Spesso capita di pensare che tutto quello che viene disegnato nei sogni non siano delle semplici impressioni visuali ma una seconda vita, come succede per gli anfibi con l’acqua e la terra. In sintesi, diciamo che la Valigia dei Sogni rappresenta la parte più anfibia di me stesso.
Quali sono le influenze musicali o se preferisci i linguaggi che possiamo trovare all’interno del disco?
Se prendiamo in considerazione il genere, diciamo che è un disco abbastanza versatile. Sono convinto che ognuno ci può riconoscere diversi linguaggi familiari proprio perché ci sono tante influenze musicali, dal jazz al rock a brani più visuali e psichedelici. Certamente in tutte le composizioni abbiamo sviluppato un discorso ritmico con l’ambizione di portare l’ascoltatore ad entrare in confidenza con tempi semplici e composti. Al di là delle influenze musicali, a volte mi sono basato su un linguaggio che potesse descrivere la scena di un film così come i Filmworks di John Zorn o la musica di Philip Glass, anche perché sono cresciuto andando al cinema e ascoltando le musiche di Morricone.
Raccontaci della tua permanenza in Messico: come sei giunto dall’altra parte del mondo e cosa ti ha affascinato?
La prima volta che sono stato in Messico era l’ottobre del 2011, ero stato invitato a sostituire il chitarrista di una band italiana, i Tamales de Chipil in un tour. All’epoca abitavo ad Amsterdam e non mi feci ripetere due volte la proposta, dovevo solo accettare, studiare il loro nuovo album e avrei potuto lasciare per un mese il freddo clima del nord in cambio di terre più soleggiate: non avevo la minima idea di cosa mi sarebbe successo. Dopo due giorni che eravamo arrivati a Città del Messico iniziarono i concerti, alcuni dei quali di fronte a diverse migliaia di persone come sui palchi dell’Auditorio Nacionàl, del Faro de Oriente o del Zocalo, che è la piazza principale di questa metropoli detta “El Monstruo” proprio per la sua grandezza. Dopo anni vissuti nel Nord Europa non potevo credere di stare in una terra con tanto sole. Venni subito catapultato in questa atmosfera frenetica e magica grazie al gruppo, i concerti, il manager e l’agenzia che organizzava il tour. Il 2 di novembre ormai la città era euforica per il giorno dei morti, che in Messico è molto sentito e festeggiato e lì fu amore a prima vista. Avevamo un concerto sul palco di una piazza, nella zona sud della città, proprio davanti un cimitero pieno di gente, fiori, teschi colorati e mariachi. Incredibile, non avevo mai visto in vita mia un cimitero con almeno 10 concerti di mariachi in simultanea. Quindi la prima volta mi affascinò questa città immensa dove si incrociano tutte le etnie e tradizioni del Messico, mescolando il passato con il futuro in una sorta di tempo/non tempo surreale.
Quando hai deciso quindi che ti saresti fermato lì?
In realtà non so se ci sia stato un momento di decisione, i primi anni alternavo i concerti, registrazioni e lezioni tra il Messico, Amsterdam, Bruxelles e l’Italia. Comunque ero rimasto colpito dal clima e dalla vita culturale della città, quindi dopo un anno dal primo viaggio ritornai, questa volta da solo e senza impegni. All’inizio, facendo base a Città del Messico, ho viaggiato dal deserto fino a Yucatàn (ricordo Wayne Shorter e il suo quartetto suonare al Riviera Maya Jazz Festival, sulla spiaggia a un lato dell’oceano). Alternavo questi lunghi viaggi con i primi concerti che riuscivo ad avere in trio e devo dire che la scena del jazz della città fu molto accogliente da subito. Così passarono velocemente i primi 5 mesi suonando jazz e conoscendo luoghi lontani dalla grande metropoli. Dopodiché sono andato in Chiapas e ho scoperto che pure là a 2200 metri di altitudine, a San Cristobal de las Casas, c’erano bravi musicisti di jazz da diverse parti del mondo suonando tutte le sere nei locali della città. Sono entrato subito nel giro e ho iniziato a suonare standard e non solo davvero tutte le sere, c’era pure un jazz club in città che era la nostra seconda casa. Il mio quartetto di Amsterdam mi raggiunse e suonammo durante un mese, poi organizzavo concerti jazz il sabato pomeriggio nella chiesetta della casa-museo Na Bolom e quando avevo 3 giorni liberi scappavo giù nella selva di Palenque tra le rovine maya. Furono tutte esperienze talmente eccezionali che piano piano stavo sempre meno in Europa e molto di più suonando continuamente tra Città del Messico e il Chiapas con diversi musicisti e progetti. Poi, affascinato dagli immensi spazi naturali, dal deserto alla selva, dalla grandissima metropoli di cemento, dalla ricchezza culturale e musicale delle popolazioni indigene e da tutti i musicisti che ho conosciuto con il quale suonavo regolarmente in locali, eventi, jazz clubs e festival, gradualmente mi sono fermato qua. In Messico, che in lingua nahuatl significa “L’ombelico della luna”.
Il disco è stato realizzato anche grazie alla partecipazione del batterista Matteo D’Ignazi: come nasce la vostra collaborazione?
Con Matteo ci conosciamo da bambini, studiavamo, io chitarra e lui batteria, nella stessa scuola di musica. Siamo letteralmente cresciuti insieme suonando in tanti gruppi della zona, in Toscana. Poi quando ho lasciato l’Italia per trasferirmi a studiare al Conservatorio di Lyon, siamo sempre stati in contatto e ogni estate abbiamo sempre fatto qualche concerto insieme. Forse dopo tantissimi anni suonando insieme, questa nasce come una collaborazione del tutto naturale. Non c’è stato bisogno neanche di parlarne troppo. Matteo è un ottimo batterista, preciso, creativo e sensibile a ogni sfumatura così che la maggior parte dei brani, anche se registrati a tracce separate e a distanza, non hanno mai avuto bisogno di una seconda mano. Ci conosciamo benissimo anche musicalmente.
Visto che “La Valigia dei Sogni” è stato realizzato durante la pandemia, vuoi raccontarci anche come hai vissuto questo periodo?
All’inizio è stato un po’ traumatico. Abitavo a Città del Messico e le notizie peggiori su questa nuova pandemia arrivavano proprio dall’Italia, poi è arrivata anche qui. Tra marzo e aprile 2020 avevo 25 concerti confermati, tutti cancellati. Certo, non era il miglior momento per tornare in Italia ma senza concerti, che era la mia unica fonte di guadagno, è stato difficile continuare. Quindi ho avuto la fortuna di trovare uno spazio in una villa con un grande giardino, sala prove e studio di registrazione, a sud di Città del Messico. Mi sono completamente isolato in questo paradiso terrestre tentando di non contare i giorni, le settimane e i mesi che passavano, praticando, dando lezioni online e scrivendo tantissima musica che spero un giorno di suonare dal vivo. Visto poi che la pandemia non finiva e i concerti non ripartivano ho scelto una zona ancora più naturale e l’ultimo anno ho vissuto poco fuori la città di Oaxaca, in una bellissima casa nel bosco proprio davanti a Monte Albàn, le famose piramidi zapoteche. Proprio in questi posti suggestivi ho registrato questo ultimo disco. E’ stato un periodo molto introspettivo e grazie al contatto con la natura ho rivalutato anche il fatto di insegnare (che avevo messo da parte in questi anni di concerti) e dar lezioni: una cosa che mi ha aiutato a ricordare l’aspetto della musica lontano dal pubblico.
Live o studio: cosa preferisci maggiormente?
Li preferisco entrambi perché mi piacciono le differenze che hanno. Sia nel live che in studio c’è bisogno di molta preparazione però mentre sto in sala mi focalizzo principalmente sul risultato finale durante i concerti c’è la presenza del pubblico che è parte dell’energia e dell’improvvisazione del momento. Sono molto diversi, a volte un buon concerto suonato bene non mi va di riascoltarlo molto così come non ho mai suonato dal vivo qualcosa esattamente uguale alla registrazione in studio: provo sempre ad aggiungere o togliere o modificare qualcosa.
Per concludere hai qualcosa in cantiere di cui vuoi parlarci?
Ci sono due progetti in cantiere, il primo è registrare le composizioni scritte nei primi sei mesi di pandemia che al momento sono rimaste solo su spartito e il secondo è la registrazione di un album in quartetto, con contrabbasso batteria e percussioni, ispirato al repertorio bandistico di Oaxaca riarrangiato alla chitarra. E poi, magari la prossima primavera, presentare dal vivo la Valigia dei Sogni In Italia.