La sera di Santo Stefano del 1966, nel camerino di un locale di Londra, Jimi Hendrix inizia a suonare la chitarra prima di salire sul palco. È lì che nasce “Purple Haze“
Londra, sera di Santo Stefano del 1966: Jimi Hendrix si trova nel camerino dell’Upper Cut Club; in attesa di salire sul palco ha iniziato a suonare la chitarra.
È lì che nasce il riff di Purple Haze. Come racconta il suo bassista Noel Redding, “all’inizio si trattava solo di un ritornello, nulla più. Lì per lì“, spiega sempre Redding, “Jimi non se n’è curato più di tanto. Aveva mille idee che gli frullavano per la testa. A Chas Chandler, però, era piaciuto subito e ha consigliato a Jimi di lavorarci su“.
Quel riff, destinato a diventare uno dei più famosi della storia del rock, si basa su due sole note, quel famoso intervallo di quinta condannato secoli prima dal Tribunale della Santa Inquisizione perché ritenuto “musica del diavolo”. Tutto motivato dal fatto che credenza popolare voleva si potesse evocare il diavolo solo accennando le note di quell’accordo (detto “diabulus”).
Purple Haze rappresenta ciò che Hendrix intendeva per musica: libertà di espressione che privilegia sentimento, passione e feeling alla pura tecnica.
Purple Haze è l’archetipo della canzone psichedelica per il suono e per il testo surreale (“vapori purpurei nella mia testa” oppure “è già domani o la fine del tempo” sino al celeberrimo “scuse me while I kiss the sky…”, cioè “chiedo scusa mentre bacio il cielo…”). Ma il brano è una testimonianza, al di là delle droghe allucinogene, della passione di Hendrix per la fantascienza o della sua attrazione fatale (che una bella ragazza di New York gli ha fatto conoscere) per i riti magici della religione voodoo.
Anche se, da sempre, Jimi non perdeva occasione di ripetere “la musica è la mia sola, vera religione“.