Dopo “Autoritratti con oggetti” (2012) e “L’universo elegante” (2015) Gianluca De Rubertis licenzia il suo terzo disco solista. S’intitola “La violenza della luce” ed è pubblicato da Sony Music (RCA Numero Uno / Sony Music). Come proprio del linguaggio musicale di De Rubertis, il nuovo album mostra una cifra stilistica che a una “semplicità” pop unisce una scrittura raffinata e profonda. Con “La violenza della luce” l’autore riflette, nel modo più autentico possibile, sul potere maieutico dell’oscurità, su come nel “buio” di una condizione esistenziale difficile si possa raggiungere una presa di coscienza insperata.
“Questo disco intravede la sua luce in uno spazio-tempo molto rapido, violento e critico. Quelle buie cupole in cui a volte incappiamo ci danno la possibilità di scoprire quanto il chiarore possa esserci sfuggito, lo avevamo dimenticato quel chiarore, percorrendo innumerabili strade fuligginose e affondando i tacchi in continue pozzanghere”, spiega l’artista, “Lo stupore che deriva dalla presa di coscienza dell’orrore che si prova per sé stessi è anche il più formidabile acciarino che ci consente di appiccare un primo timido e delicato fuoco. Per questo le canzoni di questo album, io credo, vivono quasi tutte di una stessa vita, è un concept album privo di concetto, non lo è per definizione ma potrebbe esserlo per elezione. Alla base c’è questo. L’equilibrio tra una scrittura che riuscisse elegante e densa e una semplicità più prettamente “pop” non è stato assolutamente ricercato ma si è palesato, questa volta, in maniera del tutto automatica, a vantaggio di una cifra che sento più personale. Scrivere questo album è stato un esercizio di vita, e senza prendermi la briga d’essere la parafrasi di me stesso forse sono riuscito ad essere più diretto; o almeno lo spero. Senz’altro, e a questo tengo molto, sono stato sincero. I riferimenti soliti che tutti i giornalisti vorranno cercare all’interno delle canzoni non li rifuggo, sebbene non mi interessino. Lascio la libertà di segnalarli a chi vorrà farlo”.
Il racconto di Gianluca De Rubertis inizia con “Voi mica io”, prima traccia del disco, riflessione sui connotati dell’amore vero (“Voi che vendete la fede al mondo / Col portachiavi di Padre Pio / Voi che di fronte all’amore vero / Vi presentate con un addio) e sull’arroganza di chiunque voglia definirlo in modo univoco, autore incluso (“Io che pretendo di giudicare / Sono io stesso vestito a lutto), prosegue con la ballad “Solo una bocca”, fotografia del bisogno diffuso di una dimensione sentimentale vera e credibile (“Ognuno vuole solo una bocca / Che gli baci le labbra / Che lo tocchi davvero”) (“E se la mano tocca / Fa che sia una carezza / Che mi tocchi davvero”), delinea con disincanto la fatuità di certo divertimento in “Versateci del vino” (“Santa voglia di ballare / Che ci tiene tutti svegli / Perché noi vogliamo un sogno / Che si infili tra i capelli / Con le labbra gigantesche / Baciare chi è vicino / Azzerare la memoria / Versateci del vino”), s’interroga, non senza un po’ di stizza, sul senso dei disegni del destino in “Che ci facciamo noi” (“Che ci facciamo noi / A cavalcioni di un destino funesto / Che è stato scritto da un cretino / Che gesticola bendato / Dentro al buio pesto”), raggiunge la vetta lirica dell’intero album con il primo singolo “Pantelleria” (“E il sole scopava di luce / la nuda scogliera / Le terre burrose / I sentieri dei nidi di ragno”) (“Tra cascate di stelle / Percepivo perfino il calore / Della luce di Sirio / Di quelle lontane / Ed il Sole che intanto cambiava / Alla pelle il colore”), invita ad abbandonarsi alla forza luminescente della title track “La violenza della luce” (“Vienimi ad amare / Nello spazio siderale / Tra la luce più violenta che ci sia”), si appoggia alla melodia incantevole di “Nel cuore del cuore”, settima canzone del disco, che tenera perdona gli errori della giovinezza (“Mentre sfumava la sera di un tipico maggio / Di andare a dormire non c’era il coraggio / Perciò camminavo come chi si è perso / Come chi non sa di sbagliare percorso”) e infine, in “Dimmi se lo sai”, ultima traccia del disco, non rinuncia alla domande più profonde, cruciali e terribili, che si pongono quei pochi uomini ancora alla ricerca della vera felicità (“E il male che cos’è / Amico mio? / E il bene che cos’è / Fratello mio? / Tagliar la testa a un uomo / Oppure a un fiore?”) (“La vita che cos’è? / Sei nato per un caso? / Oppure per l’amore di qualcuno?”).