Personaggio originale e dalla produzione intensa, perché sono 22 i dischi al suo attivo (compresi live e raccolte) a cui si devono aggiungere 7 dvd. Ma non è finita qui, dato che la sua vena creativa si concretizza anche in tre libri autobiografici: il mastodontico Proud e i successivi Prima appendice di Proud e Seconda appendice di Proud. Dopo aver recensito il suo ultimo cd, era logico tentare di intervistarlo..
– Buongiorno a te, ma vuoi esser chiamato Tiziano o Il Bepi?
Il Bepi inizialmente avrebbe dovuto essere un personaggio. Aveva modi, aspetto e pure pensieri diversi dai miei. Con il tempo, però, era diventato pesantissimo portare parallelamente avanti due personalità così lontane. Anche perché la gente si innamorava del Bepi, non di Tiziano! In ogni caso, ho preferito “assorbire” tutti gli aspetti del Bepi che mi piacevano (il dialetto, il country, il rock, l’interesse verso il territorio, anche un po’ di ruvidità perché no…) e far convergere le due figure. Oggi come venga chiamato non fa differenza. Chi mi chiama “Tiziano” spesso lo fa per non “offendermi” o per farmi credere più sincera e profonda la sua amicizia. Sappia che per me sono tutte cazzate. Non è da come vengo chiamato che capisco quanto si apprezza ciò che scrivo e canto.
– A Febbraio ho recensito il tuo cd T11 (Tön dés): rileggendo l’articolo, mi sono venute delle domande e vorrei cominciare a fartele, dato che la curiosità mi attanaglia. La prima domanda è generica: questo disco che differenze sostanziali ha con i precedenti?
Dal 2017 in poi i dischi sono usciti a nome “Il Bepi” e non più “Bepi & The Prismas”. Questo non certo perché la mia storica band non esista più, ma perché è mutato il mio metodo di lavoro. Non più uno sforzo sinergico in fase di arrangiamento, ma una stesura completamente mia di ogni singola parte strumentale. A riguardo mi dà una grossissima mano il tastierista Alberto Sonzogni che, per mia fortuna, ha una gran competenza tanto musicale (in virtù dei suoi diplomi di Conservatorio) quanto informatica. L’ausilio della tecnologia digitale, infatti, è fondamentale: si tratta di una rivoluzione a mio avviso non paragonabile ad alcuna altra precedente. Positiva sì, ma anche con effetti collaterali, soprattutto di tipo morale, parecchio spinosi. Dai due dischi usciti nel 2017, comunque, T11 (Tön dés) si differenzia per un approccio meno cupo, meno cattivo, anche come sonorità. Meno metal e hard rock e un po’ più di pop.
– Logico invitarti a riflettere sul fatto che la mia recensione è di Febbraio, quando non era ancora stata dichiarata la pandemia: come hai passato questi ultimi mesi?
Di tutti quanti sembra io sia il meno dispiaciuto per il fatto di non fare concerti. Spiace un po’ per le palanche che non prenderò, certo, ma, con tutto quello che mi sta passando adesso per la testa, non avrei avuto molta voglia di buttarmi nella bolgia edulcorata dei live. Ho scansato il più possibile anche tutte quelle forme di esibizionismo banalotto che ho ribattezzato Covid-style …
– Da questa quarantena, hai tratto spunto per delle tue riflessioni? Qualche brano nuovo?
… non dalla quarantena! Mi sono dedicato a progetti miei che avevo in testa da prima. Tra alti e bassi, a seconda un po’ dell’umore e un po’ dei “permessi” di Fontana (Governatore della Lombardia) o di Conte, ho cercato di portarli avanti..
– Io vivo a Firenze e la tua notorietà non ci ha ancora raggiunti: nella bergamasca invece (prima della pandemia) avevi un seguito molto forte …
Nel periodo 2005/2006 il boom è stato talmente forte che ho rischiato di superarli i confini provinciali e regionali e, in qualche caso, ci sono pure riuscito! Tutto sommato, però, considerato il modo in cui i media nazionali approcciano i fenomeni come il mio, sono contento che quella bolla col tempo si sia un po’ sgonfiata. Rischiavo di restare ancora più prigioniero di quanto non sia ora di un personaggio macchiettistico che non ha mai rappresentato affatto la mia vera ambizione. Oggi il Bepi è abbastanza lontano da quello degli esordi, ma la qualità che ha sempre contraddistinto la mia evoluzione mi ha permesso di non evaporare, ma di conquistare, se mai, nuovi fan, anche a costo di perdere parte di quelli che avevo prima. Certo, buona parte del mio repertorio recente non è nemmeno conosciuta, ma la colpa probabilmente è anche di un appeal meno immediato di prima. Bisogna essere bravi anche a incuriosire.
– Proprio a causa della distanza, non ho ben compreso l’importanza simbolica che avevi dato alla copertina del disco .. a quel carretto…
L’attenzione al territorio per me è sempre stata un must. In ogni disco sono presenti innumerevoli incursioni nella cultura e nel costume bergamasco. Nel caso di T11 quel carretto altro non è che una citazione ai “coertì da Léf” (copertini di Leffe), pionieri di quella rivoluzione industriale e del tessile che cambiò per almeno un secolo le sorti dell’intera Valle Seriana. Pensiamo al Gruppo Radici, tanto per fare un esempio. Non potete non conoscerlo, visto che campeggia sulle maglie della squadra al momento più sorprendente dell’intero continente. Oggi fanno soprattutto plastica e sono un colosso planetario, ma tutto partì da Pierino Radici negli anni ’20 e da un piccolo carretto pieno di “pilùse” (coperte di lana grezza).
Non sottovalutiamola quest’intraprendenza orobica! Da sempre è al contempo la nostra principale virtù e il nostro più grande difetto. Non è un caso se proprio in questa valle il Coronavirus ha trovato il suo massimo sfogo, dopo Wuhan. Il legame con il lavoro e con il denaro c’è; è innegabile.
– Nella recensione scrivevo che comprendevo bene il tuo dialetto, avendo passato tutta la mia gioventù nella tua vicina Valtellina: questo discorso geografico, mi porta a chiederti come consideri i vari dialetti: una risorsa? Un retaggio? Una opportunità per dividere o per unire i popoli?
Io ne sono oltremodo affascinato. Lo sanno tutti. Mi piace spingermi almeno fin dove passa un’isoglossa importante. Credo che ci siano confini di costume che di quelli politici se ne fregano. Nella lingua del territorio c’è quasi tutto e nei caratteri comuni dei dialetti si trovano gli elementi che un tempo rendevano certe province vicine molto più simili che diverse. Ci sono argomenti, situazioni, acquerelli che, trasposti in italiano, perdono più del 50% della loro forza.
– Guardiamo al futuro: cosa Tiziano Incani ha in programma? Cosa dobbiamo aspettarci da Il Bepi?
Sto lavorando a una serie di progetti che io dico sempre essere “fuori di testa”. In realtà è ovvio che non li credo realmente così folli, ma sono assolutamente conscio siano comunque molto, molto distanti da ciò che il pubblico si aspetta da me. È difficile, con queste prospettive, trovare stimoli positivi, perché onestamente non reputo nemmeno queste idee vincenti da un punto di vista commerciale. Ma intendo comunque restare fedele a ciò che sono e sento. Si ritorna un po’ al discorso iniziale: cosa ti aspetti da uno che canta in bergamasco? Folklore, di solito: colori carichi, poche sfumature e magari qualche grossolana risata. Io, benché queste etichette sembrino stare bene a tutti, bergamaschi e non, fatico sempre di più a starci dentro, invece.