Gabriele Antonucci e il messaggio di Michael Jackson

Tempo di Lettura: 9 minuti

Michael Jackson. La musica, il messaggio, l’eredità artistica” (Hoepli) è il libro che il giornalista Gabriele Antonucci ha dedicato a quello che è universalmente riconosciuto come il “Re del pop”. Il testo è uscito in occasione del decennale dalla scomparsa dell’artista. In un momento in cui sono usciti numerosi testi e opere audiovisive dedicate all’arte e alla musica di Jackson, l’opera di Gabriele Antonucci si presenta come una delle più complete, accurate e, cosa non del tutto trascurabile, tra le più obiettive. Abbiamo avuto occasione di incontrare Gabriele Antonucci (attualmente collaboratore di Panorama.it) per parlare della sua ultima fatica.

La prima domanda che mi viene da farti è come mai, nella sua grandezza artistica, Michael Jackson risulta uno degli artisti più fraintesi della storia della musica pop?

Assolutamente sì. Purtroppo per anni si è fatta una cattiva informazione su di lui, con una narrazione da parte dei tabloid (e non solo) faziosa, distorta e troppo spesso legata agli aspetti scandalistici, processuali e di gossip, tanto che ancora oggi molte persone credono che si sia sbiancato la pelle, mentre in realtà era affetto da vitiligine, come confermato dall’autopsia effettuata dopo la sua morte prematura. Per questo ho voluto rendere giustizia, con questo libro, ai suoi meriti artistici e umani, che troppo spesso sono stati oscurati da maldicenze e da giudizi superficiali. Non molti sanno, ad esempio, che è suo il record di maggior filantropo della musica con oltre 400 milioni di dollari donati in beneficenza, come riportato dal Guinness dei primati. Jackson è stato un precursore in tutti i sensi, un vero artista capace di raccontare lo spirito del suo tempo, o, meglio ancora, di anticiparlo, rivoluzionando la musica black, la videoarte e ponendo all’attenzione del mondo l’emergenza ambientale già nel 1995 con la canzone-capolavoro “Earth Song”.

Ho trovato piuttosto fuori luogo alcune affermazioni uscite dal documentario “Leaving Neverland”. Qual è il tuo giudizio su quest’opera?

Più che un documentario, come è stato presentato dalla HBO che l’ha prodotto, è stata un’operazione deliberata di distruzione dell’immagine di Michael Jackson, guarda caso uscita proprio nel decennale della sua morte. Un documentario sui generis a partire dalla sua singolare struttura, basata solo ed esclusivamente sui racconti di due protagonisti (le cui richieste economiche sono state già rigettate nel 2017 da due diversi collegi giudicanti per mancanza di prove) e dei loro stretti familiari, senza prove, né voci esterne a quelle degli accusatori. Le interviste sono utilizzate per dimostrare la tesi del regista Dan Reed, che crede fermamente, senza però mai fornire per 4 ore la cosiddetta “prova madre”, che Michael Jackson fosse un pericoloso pedofilo, accuse peraltro smentite da un lungo processo che lo ha scagionato nel 2005 da ogni imputazione. In un mio lungo articolo su Panorama.it ho spiegato tutti i motivi logici, psicologici e giuridici per cui ritengo che Leaving Neverland non possa essere ritenuto un documentario credibile. Mi limito qui a uno solo, divertente e surreale al tempo stesso: nel film, la mamma di James Safechuck (uno dei due accusatori n.d.r.) sostiene che “ballò di gioia” quando Michael Jackson morì nel 2009, anche se suo figlio rivelò gli abusi solo nel 2013 quando, dopo aver sentito Robson intervistato al “Today Show”, si “ricordò” di essere stato violentato anche lui anni prima. Per caso la donna aveva doti di preveggenza che noi non conosciamo? Prima di intraprendere questo lavoro di ricerca su Michael Jackson per il libro, ero certo al 100% della sua innocenza rispetto alle accuse che gli sono state fatte negli anni: adesso, soprattutto dopo aver visto Leaving Neverland, lo sono al 120%”.

Anche leggendo questo nuovo libro si resta impressionati dalla vastità di notizie, curiosità e informazioni che hai raccontato. Quale metodo di lavoro hai seguito?

Oltre alla passione per Jackson, che coltivo dal 1987, anno in cui è uscito l’album “Bad”, c’è stato un grande lavoro di ricerca, attraverso i migliori libri, articoli e documentari che sono stati pubblicati negli anni su di lui. Ho letto migliaia di pagine e visto ore e ore di filmati, in relativamente poco tempo: una vera e propria full immersion! Una delle cose più difficili del libro è stata quella di cercare di fornire tante informazioni in relativamente poche pagine (circa 170), in modo che il libro non avesse la “pesantezza” di certi volumi di 500-700 pagine, poco adatti alla bassa soglia di attenzione che abbiamo oggi, e che fosse facilmente fruibile da tutti. Spero di esserci riuscito e sono davvero molto contento per i pareri positivi che ho ricevuto dai lettori.

Parliamo di Thriller” a oggi uno dei dischi più venduti nella storia. A tuo avviso senza l’apporto di Quincy Jones avremmo avuto quest’album?

C’è stato un grande contributo di Quincy Jones non solo in Thriller, ma in tutti i primi tre album solisti di Michael,” Off The Wall”, “Thriller” e “Bad”, in particolare negli strepitosi arrangiamenti, nella qualità dei musicisti coinvolti e nella bravura a esaltare tutte le sfumature vocali del cantante, oltre che di Rod Temperton, che ha composto alcuni dei brani più memorabili di “Thriller”, tra cui la leggendaria title track. Quando Michael e “Q” si conobbero, durante le riprese di “The Wiz”, Jackson aveva già dimostrato di avere grandissimi doti non solo come interprete, ma anche come compositore e produttore (pensiamo all’abum “Destiny” con i Jacksons). Negli anni Novanta il Re del Pop ha inciso più canzoni, pubblicato più album e girato più video che negli anni Ottanta, smentendo così il luogo comune del suo declino artistico dopo la fine della collaborazione con Quincy Jones, che pure ha avuto meriti enormi nel suo successo. Insomma, Jones, che io considero uno dei migliori compositori e arrangiatori di sempre, è stato un eccellente “allenatore”, ma Michael sarebbe stato comunque un fuoriclasse, probabilmente anche senza di lui. “Thriller”, il suo capolavoro, non è stato solo uno dei migliori album di sempre, ma anche uno dei momenti più importanti della cultura pop del Novecento, un’incredibile esperienza di massa e di comunanza collettiva, che ha unito milioni di persone in tutto il mondo: bianchi e neri, giovani e meno giovani, ricchi e poveri, gay ed etero, occidentali e orientali. Con nove canzoni, tre video e una leggendaria esibizione live, Thriller ha portato Michael Jackson a un’altezza siderale, dove nessuno è più riuscito a raggiungerlo, coniugando in modo assolutamente originale funk, rock, soul, r&b e gospel, dando vita così a un mix di atmosfere e di colori del tutto inedito. A differenza della maggior parte dei dischi pop degli anni Ottanta, che suonano datati, Thriller ha un sound ancora attualissimo, fresco e vibrante.

Dal tuo punto di vista quanto sono stati importanti i Jackson 5?

Sono stati importanti ancor più da un punto di vista culturale che musicale, anche perché era la prima volta che una band formata da soli ragazzi neri aveva raggiunto un successo tale da scalzare più volte, tra il 1969 e il 1970, i Beatles dalla vetta della classifica Billboard. La critica definì in modo sprezzante quelle canzoni bubblegum soul, soul alla gomma americana, ma è innegabile l’impatto culturale che ebbe sulla società statunitense il travolgente successo di un gruppo di ragazzi afroamericani che venivano da una famiglia povera di Gary. Anche se amo molto canzoni indimenticabili come “I want you back”, “Abc”, “Stop the love you saved” e “I’ll be there”, da un punto di vista più squisitamente musicale, ritengo più interessanti gli album dei Jacksons, anche perché, senza i loro primi tre album (secondo me strepitosi), non avremmo avuto un caposaldo della black music e della disco come “Off The Wall” del 1979 che, tra l’altro, è il mio album preferito di Jackson. Lui era un frequentatore assiduo dello Studio 54, dove ha festeggiato i suoi 21 anni e dove ha “assorbito” la magia della disco music, che ha fatto e che ancora oggi fa ballare il mondo intero”.

Michael Jackson e l’Italia. E’ noto l’amore tra l’artista e il nostro paese e viceversa. Quali aneddoti puoi ricordare al riguardo?

Certo: la amava così tanto che ha anche copiato una canzone di Al Bano! In realtà, come spiego nel dettaglio in un box del libro, non ci fu alcun plagio da parte di Jackson. Dopo un lungo contenzioso, come spesso accade nel mondo delle sette note, i giudici hanno ravvisato che sia il brano “Will you be there”, pubblicato nel 1991 all’interno dell’album “Dangeorus”, che “I cigni di Balaka”, canzone che Al Bano incise nel 1987 insieme a Romina Power nell’album “Libertà!”, in realtà erano ispirati entrambi da una canzone del 1939 sprovvista di copyright, “Bless You For Being An Angel degli Ink Spots”, gruppo che, a sua volta, si era rifatto ad una musica dei nativi americani. Per questo motivo, nel 2001, c’è stata la definitiva assoluzione di Jackson dal reato di plagio. Michael, da appassionato d’arte (in particolare di Michelangelo), amava molto l’Italia, dove ha sempre avuto numerosi fan, che lo seguono ancora oggi con affetto, come dimostra l’intensa attività online del Michael Jackson Fansquare, l’affollata piazza virtuale dove si ritrovano i suoi supporter italiani”.

Il libro è uscito per la Hoepli, nella collana “La storia del rock. I protagonisti” diretta da Ezio Guaitamacchi. Come ti sei trovare a scrivere per una collana orientata molto sul rock?

Innanzitutto devo ringraziare sia Ezio Guaitamacchi che Andrea Sparacino della Hoepli per aver creduto nel mio progetto, ospitando il mio libro in una collana dedicata al rock. Da critico musicale, mi preme sottolineare come il rock non sia solo un genere musicale, ma soprattutto un modo di fare le cose, un’attitudine di “‘rottura”‘ e di novità, un non accontentarsi dello status quo, sia socialmente che musicalmente: da questo punto di vista, Jackson è indubbiamente rock. Inoltre molti suoi brani (penso soprattutto a “Beat It” con l’assolo indimenticabile di Eddie Van Halen e “Black or white” con la chitarra incendiaria di Slash dei Guns N’Roses, ma potrei citare anche “Dirty Diana”, “Give in to me” e “Who is it?”) sono, da un punto di vista squisitamente musicale, assolutamente rock, inteso come musica in cui chitarra, basso e batteria giocano un ruolo enfatico.

Parliamo di dischi. Immaginiamo un lettore che è a digiuno di Michael Jackson e che sta leggendo il tuo libro. Quali sono i 5 brani e i 5 album di questo artista che ti senti di consigliare?

Jackson non ha inciso, a differenza del suo “rivale” di sempre Prince, molti album, quindi la scelta, in ordine di preferenza, è abbastanza facile: 1) “Off The Wall” perché amo le sue atmosfere disco funk 2) “Thriller” perché è un album assolutamente perfetto 3) “Dangerous” perché è il suo lavoro più innovativo 4) “Bad” perché è l’album con il quale l’ho scoperto 5) “HIStory” perché, a 25 anni dalla sua uscita, merita di essere riascoltato con la giusta attenzione, soprattutto per i testi maturi e socialmente impegnati. Per le canzoni è davvero difficile fare una graduatoria, ma ci provo comunque: 1) “Rock with You”, la mia preferita, ricca di groove e di sentimento; 2) “Man in the mirror”, un grande brano pop-gospel con un grande messaggio; 3) “Stranger in Moscow”, malinconica e delicata, con un ritmo lento e meccanico; 4) “Dont’ stop ‘til you get enough”, perché è un brano che ha uno degli incipit più esaltanti nella storia della black music e perché mi fa venire una voglia irrefrenabile di ballare; 5) “The Lady In My Life”, una ballad morbida e sensuale, a metà strada tra Frank Sinatra e Stevie Wonder, ennesimo gioiello uscito dalla penna del compianto Rod Temperton e altra clamorosa interpretazione vocale di Michael, che l’ha cantata in modo “implorante”, come richiesto espressamente da Quincy Jones.

Sei anche l’autore di un libro dedicato ad Aretha Franklin (“Aretha Franklin. La regina del soul” – Vololibero). Se non sbaglio è l’unico volume pubblicato da un autore italiano su questa artista. Come è nata l’idea di scrivere un testo su Aretha?

Mi è stato proposto da Alberto Castelli, uno dei massimi esperti della musica black in Italia, oltre che curatore della collana “Soul Books” di Vololibero che, conoscendo la mia passione per la musica dell’anima, mi ha chiesto se me la sentissi di scrivere una biografia su di lei. Ovviamente, amando da sempre la musica di Aretha, ho accettato con grande entusiasmo, anche perché nessuno in Italia si era mai occupato prima di lei: questo fa capire la considerazione, che abbiamo noi italiani, per la musica nera. La mia passione per le monografie nasce tanti anni fa, come mero lettore: ho sempre trovato molto affascinante scoprire come la grande musica scaturisca spesso da vite molto dolorose e ricche di difficoltà. Purtroppo oggi la musica mainstream è sempre meno un riflesso della vita personale del suo interprete. Scrivere due libri su Aretha Franklin e Michael Jackson, due tra gli artisti che amo di più, è stato un grande privilegio per me”.

I giorni che stiamo vivendo non sono certo semplici. Il COVID-19 sta obbligando tante persone a stare in case per ragioni di sicurezza. Secondo te quanto torneremo ad ascoltare musica dal vivo? Che ne sarà dei concerti?

Ho paura che non torneremo ad assistere a un concerto prima del 2021, anche se la mia speranza è che si riesca ad anticipare qualche piccolo evento musicale, dove è più facile il distanziamento sociale, prima della fine dell’anno. La musica live, dopo un periodo di grande crescita negli ultimi anni, anche a causa del diffondersi dell’odioso meccanismo del secondary ticketing, si troverà ad affrontare una crisi senza precedenti, soprattutto per le migliaia di persone che lavorano dietro le quinte e che guadagnano solo nel momento in cui possono lavorare. Spero che il Governo si occupi concretamente del mondo della cultura, anche se, storicamente, da noi la musica non è ancora considerata cultura vera e proprio, ma passatempo e svago. Come ha suggerito bene Claudio Trotta di Barley Arts, si potrebbe destinare una parte delle ingenti liquidità di cui dispongono i grandi promoter, grazie ai biglietti già venduti per concerti poi rischedulati al 2021, per anticipare dei soldi ai tanti precari del mondo della musica. Sarebbe un bel segnale per tutto il comparto, e non solo.

Visto che dobbiamo stare in casa e hanno riaperto le librerie, quali libri ti senti di consigliare (oltre al tuo ovviamente) ai nostri lettori?

Sicuramente “La Storia della Disco Music” di Andrea Angeli Bufalini e Giovanni Savastano, non solo perché è la bibbia della disco, ma perché rende finalmente giustizia, sia da un punto di vista musicale che sociologico, ad un genere che per anni è stato bollato ingiustamente come superficiale, edonista e commerciale, mentre in realtà era assolutamente innovativo. Mi piacerebbe leggere prossimamente anche “Yes I Know… Pino Daniele. Tra pazzia e blues: storia di un Masaniello newpolitano” di Carmine Aymone, perché Pino Daniele è davvero un fuoriclasse della musica italiana, un mix unico di grinta e dolcezza, virtuosismo chitarristico e cantabilità, ricerca di nuove sonorità, ma sempre al servizio della forma canzone.

Exit mobile version