“Storie di chi vince a metà” è stato l’album di esordio di Riccardo Maffoni. Per gli appassionati di rock, soprattutto per quelli che guardano a quello statunitense, il cantautore di Orzinuovi è stato uno dei giovani più interessanti dei primi anni 2000. Quel disco era del 2004. In seguito alla vittoria di Riccardo Maffoni con “Sole negli occhi” alla sezione giovani del Festival di Sanremo 2006 (che per effetto della formula di allora gli valse anche il quarto posto assoluto) il disco venne ristampato. Riccardo Maffoni in tutti questi anni non ha mai smesso di fare musica, anche se – e lo dice uno che ha visto l’artista muoversi sin dall’inizio in numerosi concerti – avrebbe meritato di più dai media e dalla discografia. L’ultimo disco di Riccardo Maffoni è “Faccia” (2018), mentre lo scorso anno l’artista ha portato sul palco uno spettacolo celebrativo del suo primo album. E proprio in occasione della pubblicazione su YouTube di “15 anni di Storie di chi Vince a Metà, il Concerto” (visibile su https://bit.ly/2VwIOpG ) , registrato il 6 aprile del 2019 al Teatro Bortolozzi di Manerbio (Brescia) abbiamo intervistato l’artista.
Ciao Riccardo, ben ritrovato. E’ da un po’ che non ci sentiamo per un’intervista. Innanzitutto considerato che sei di Orzinuovi e vivi dunque in provincia di Brescia, come stai vivendo questa emergenza nazionale legata al COVID-19?
Grazie Antonio, si è passato un bel po’ di tempo. Sto vivendo questa emergenza come tutti, spero, cercando di uscire il meno possibile. Sembra una banalità ma al momento, è l’unico modo per combattere questo nemico. La provincia di Brescia è una della più colpite da questo virus e il mio paese Orzinuovi, il più colpito della provincia, questo per farti capire quanto sia coinvolto da questo momento difficile che spero passi il prima possibile. Per fortuna sto bene e questo è già molto, considerando quello che stiamo ancora vivendo in Lombardia.
La pubblicazione del concerto realizzato lo scorso anno a Manerbio offre lo spunto per riscoprire il tuo primo album solista. Ricordo con molto affetto “Storie di vince a metà”, sia perché ho avuto la fortuna di seguirti sin dai concerti di spalla ai Nomadi che precedettero il lancio del disco (compresa una tua partecipazione al Nomadincontro a Novellara) sia in tutta la fase di lancio (impossibile non ricordare, tra gli altri, Dolores Mahchi della Warner), e le aperture dei concerti italiani di Van Morrison e Alanis Morrisette. Tu venivi fuori da una lunga gavetta, avevi vinto anche il Premio Ciampi a Livorno (2000), sei stato tra gli otto finalisti di Musicultura (2000) e poi il Festival di Castrocaro vinto nel 2002. Cosa ricordi di quel periodo?
E’ stato un periodo veramente intenso della mia vita. Dopo molti anni passati a suonare nei locali, primacon diverse band poi come cantautore voce e chitarra, i frutti di tanti sacrifici cominciavano ad arrivare. Il Premio Ciampi di Livorno fu il primo riconoscimento a livello nazionale: per la prima volta uscivo dalla mia provincia, dalla mia regione, e per qualcosa di così importante. Ricordo ancora il momento esatto della mia esibizione, subito dopo una bellissima introduzione del compianto Ernesto De Pascale. Mi trovai solo con la mia chitarra davanti ad un teatro tutto esaurito in religioso silenzio. Quello credo fu l’inizio di un lungo viaggio. Ho bellissimi ricordi, e soprattutto, stavo imparando questo lavoro, fare l’artista, il musicista, stare sopra un palco importante, trovarsi davanti a una folla, che come capitava durante le aperture, non era lì per te, quindi tanta energia e voglia di dimostrare tutto il mio valore. Avere la fortuna di vedere da vicino artisti come Nomadi, Van Morrison, Alanis Morrissette credo sia stato un po’ come tornare a scuola, solo che non c’erano banchi e professori, ma teatri, palazzetti, palcoscenici, tecnici, insomma, tutto quello che c’era da sapere sulla musica live e non solo. Tutte queste esperienze me le sono portate in studio, ne ho fatto tesoro, ho sempre cercato di fare del mio meglio, sia durante le fasi di registrazione di un album che nei concerti. Quando sono arrivato alla Warner ero giovane, pieno di canzoni, di ingenuità, di inesperienza ma anche molto sicuro di me e testardo. Pubblicare “Storie di chi vince a metà” è stato uno dei tanti sogni che sono riuscito a realizzare grazie alla musica. Dolores era una discografica veramente professionale e allo stesso tempo comprensiva che cercava sempre di far trovare l’artista a proprio agio. Poi le nostre strade si sono separate ma ricordo sempre con affetto quelle lunghe giornate di lavoro promozionale passate insieme.
Invece, a livello compositivo, quando sono nati i brani che sono poi andati a far parte dell’album?
I brani che poi sono andati a finire su “Storie” erano canzoni che ho accumulato nei 3/4 anni precedenti la pubblicazione. Quando ho firmato il contratto con la Warner avevo già scritto parecchie canzoni che eseguivo dal vivo. Il lavoro iniziale è stato quello di fare una scrematura tra 40, 50 canzoni. Nel corso degli anni ho capito che le canzoni del primo album, in generale, hanno qualcosa di diverso, sai, quando scrivi le tue prime canzoni, non hai nemmeno in mente che finiranno su un album, sei al di fuori di qualsiasi tipo di influenza o di procedimento creativo, è tutto molto più istintivo, cosa che in seguito, per quanto la tua scrittura possa essere naturale e spontanea, sarà comunque diverso. Scrittura delle canzoni, registrazione in studio, pubblicazione album, promozione, concerti, tutto questo percorso, quando hai 20 anni e non hai nessun contratto discografico non ti passa neppure per la testa, certo, è un sogno, ci lavori ogni giorno, ma non sai ancora cosa realmente significhi pubblicare un album. Questo è quello che è successo a me, come sai, quando ho iniziato io la situazione musicale era un po’ diversa rispetto a oggi, pubblicare un album era ancora qualcosa di molto difficile, non esistevano canali come YouTube e Facebook, quindi senza una etichetta era quasi impossibile sobbarcarsi tutto il lavoro che c’è dietro ad un album, l’unica cosa sulla quale mi potevo concentrare erano le canzoni, che sono poi la base di tutto, senza canzoni non c’è niente!
La title-track la ricordo sempre volentieri perché ha un sapore springsteeniano. Bruce Springsteen è sempre stato un tuo punto di riferimento? Quali altri artisti hanno fatto parte della tua formazione musicale?
Nel corse degli anni ho cercato di ascoltare vari tipi di musica, ovviamente Springsteen che è stato uno dei primi artisti che mi ha fatto innamorare delle musica, ma potrei citarti anche Joe Cocker, Rolling Stones, Bob Dylan, Neil Young, Van Morrison, il blues di Chicago, Muddy Waters, Robert Johnson, il soul di Sam Cooke, la nostra bellissima musica italiana, Battisti, De Gregori, Bennato, Vasco Rossi, Modugno, Tenco, Rino Gaetano e molti altri. Nel tempo ho imparato anche ad apprezzare la musica classica, Bach, Mozart! Credo sia importante non precludersi niente, la musica è bella tutta, c’è sempre qualcosa da scoprire. A volte mi capita di riascoltare un album e notare qualcosa che anni fa non avevo notato. E’ una cosa bellissima! Ti da il senso del progredire, del quanto il tuo approccio alla musica cambi nel corso del tempo. Quando stavo imparando a suonare la chitarra ovviamente il mio riferimento erano le chitarre, oggi ascolto in modo più completo, e quindi particolari che allora mi sfuggivano o mi sembravano meno importanti oggi riesco ad apprezzarli in tutta la loro bellezza ed efficacia.
Tornando all’album spiccava anche “Uomo in fuga” dedicata a Marco Pantani. Brano che poi venne adottato anche dalla Fondazione Pantani. Quando è stato importante un’atleta come Pantani per la tua generazione e più in generale nell’immaginario collettivo?
Credo che Pantani faccia parte di quei personaggi, di quegli essere umani che sono entrati nelle nostre vite, al di là della loro professione, sono entrati a far parte della nostra storia, come popolo, sono dentro la nostra cultura, la nostra società. Pantani è riuscito a riportare il ciclismo nelle nostre case, come non avveniva da anni, come forse solo il calcio riesce a fare. Sono quegli eroi che ti fanno sognare, che ti lasciano dentro qualcosa, non importa quanto lontano la loro vita sia dalla tua, ne entrano a far parte. Sognare, questo è quello di cui abbiamo sempre bisogno. Pantani è riuscito a far sognare una generazione, una nazione, un popolo, e questo nessuno lo potrà mai dimenticare, ne cancellare e quando “Uomo in fuga” venne scelta dalla Fondazione Pantani fu qualcosa di molto importante per me, un grande riconoscimento, nonostante la tragica morte avvenuta pochi mesi prima. Quando sono in tour in Romagna spesso mi vedo con la famiglia di Marco, con mamma Tonina e papà Paolo. Due persone bellissime che non mi hanno mai dimenticato in tutti questi anni, nonostante le mille difficoltà e le battaglie che stanno combattendo.
Arriviamo ora al capitolo Festival di Sanremo. Era l’edizione del 2006, condotta da Giorgio Panariello. Per motivi lavorativi sono un po’ testimone diretto di quell’edizione, vinta da Povia e che ha visto sul podio anche i Nomadi e Anna Tatangelo. Ricordo che in precedenza avevi partecipato anche a un’edizione di Destinazione Sanremo. Ma come nacque “Sole negli occhi” e l’idea di portarla sul palco dell’Ariston?
Partecipai a Destinazione Sanremo nel 2002 ma non diede i risultati sperati, quindi non venni preso al Festival quell’anno. “Sole negli occhi” faceva parte di un gruppo di canzoni che avevo scritto dopo la pubblicazione di “Storie”. All’epoca registravo le mie canzoni con un mangianastri da scrivania, ero pieno di cassette, che tra l’altro conservo ancora. Avevo scritto queste nuove canzoni, ma non si stava ancora pensando a un nuovo album, era troppo presto. Ricordo di aver scritto la musica di “Sole negli occhi” di notte, al pianoforte. La mattina seguente dopo aver riascoltato il lavoro fatto di notte ho scritto subito il testo, di getto. Era quella che più mi convinceva tra le canzoni scritte in quel periodo e piacque molto anche ai miei discografici. Da qui poi nacque l’idea di proporla al Festival di Sanremo.
Il verdetto finale sorprese tutti. “Sole negli occhi” vince la categoria giovani al televoto contro Simone Cristicchi, favorito della vigilia con “Che bella gente” (io stesso, che stimo e conosco entrambi, davo per scontato il verdetto). In effetti ci fu una bella risposta da parte della tua città e della provincia di Brescia in generale. Ricordo che sostennero molto la tua partecipazione, anche con le locandine dei giornali. Tu come l’hai vissuta?
Io e Simone Cristicchi tra l’altro ci eravamo già conosciuti qualche anno prima, proprio a “Destinazione Sanremo”. Onestamente non ho vissuto la mia partecipazione al Festival come ad una gara, anche se lo è, l’ho vissuto soprattutto come un palcoscenico, quindi cercando di dare il meglio di me stesso, come faccio ogni volta che mi trovo davanti a un pubblico, al di là del verdetto, che poi si rivelò il migliore possibile. Fu una settimana molto intensa, impegnativa, snervante, stancante, ma fu una grande esperienza per me, fu un altro importante passo nel mondo della musica. Ci fu un grandissimo sostegno da parte di tutta la provincia di Brescia. Ricordo che la mia esperienza fu vissuta con grande entusiasmo e venne molto sentita dai miei concittadini. L’anno prima Francesco Renga vinse con “Angelo”, quindi penso che rivedere un altro bresciano su quel palco fu grande motivo di orgoglio per la nostra provincia. L’affetto del pubblico è qualcosa di magico, ti da una forte spinta, ti da la sensazione che quello che stai facendo sia la cosa giusta, che tutti i tuoi impegni possano essere prima o poi ripagati. E’ davvero emozionante.
Sanremo però riserva anche amare delusioni. L’anno successivo tutti si sarebbero aspettati di vederti di nuovo a Sanremo tra i Big, ma il nuovo direttore artistico Pippo Baudo fece scelte diverse. Con che brano avresti dovuto partecipare?
In quel periodo stavo già lavorando ad una nuova serie di brani, e uno di questi era “Vorrei Sapere”, scritto insieme a Sergio Vinci. Era questa la canzone sulla quale puntavamo. Anche se non partecipai al Festival “Vorrei Sapere” venne scelta come singolo per il mio successivo album.
Nel 2008 esce “Ho preso uno spavento”, secondo album e prova di maturità? A riascoltarlo oggi risulta ancora molto fresco e attuale. Sei soddisfatto di questo lavoro?
E’ un album molto diverso da “Storie”, sia a livello di sonorità che di scrittura. Ovviamente riascoltando dei lavori del passato vengono alla mente nuove soluzioni che all’epoca non si è stati in grado di adottare, c’è sempre qualcosa che si vorrebbe cambiare, ma personalmente sono molto contento di questo lavoro, ci sono alcune canzone, “Vorrei Sapere”, “Tornare a Casa” “Hey Baby Tu” che sono state molto apprezzate dal mio pubblico e non mancano mai nei miei concerti.
Poi ancora concerti. Ricordo anche tue esibizioni negli Stati Uniti, per arrivare all’EP “1977” (2011), che è poi il tuo anno di nascita. Dovendo sintetizzare tutto questo periodo di quali cosi resti più soddisfatto?
Sono stati anni quasi interamente dedicati al live. Volevo solamente suonare, suonare e suonare. Arrivare fino negli States è stato qualcosa di incredibile, la terra della musica rock, un altro sogno. Confrontarmi con un pubblico diverso, che non parlava la mia lingua, è stata una bella sfida e quando sono tornato ero pieno di energia, pieno di entusiasmo, era stata una esperienza così grande che volevo in qualche modo racchiuderla in un album, da qui nasce l’idea di 1977, un EP di cover in inglese, per omaggiare alcuni dei miei artisti preferiti. Una grande soddisfazione, oltre alle date in America è stato quello di registrare “1977” tutto da solo, a casa mia, suonando tutti gli strumenti. Era una cosa che avevo in mente da un po’ e finalmente dopo esser tornato da questo viaggio mi sono messo al lavoro. E’ stato un lavoro molto intenso e vissuto ma credo di esser riuscito a trovare il giusto equilibrio tra i brani, dandogli una mia veste interpretativa.
Bisogna arrivare al 2018 per il nuovo album “Faccia”, che contiene anche il brano “Provate voi” vincitore del “Premio Peppino Impastato – Targa 100 Passi”. Un disco maturo e autorevole. In quanto tempo ci hai lavorato?
Per “Faccia” ho lavorato duramente in ogni ambito. E’ un album autoprodotto, quindi ho dovuto mettere in campo tutta la mia esperienza e la mia voglia di ritornare in pista. Mi sono chiuso in studio insieme al produttore Michele Coratella e dopo 5/6 mesi di lavoro abbiamo ultimato le registrazioni di “Faccia”, un album di 14 tracce. Anche in questo caso ho suonato quasi tutti gli strumenti, e grazie alla bravura e professionalità di Michele sono riuscito a realizzare quello che avevo in testa. Non ho lasciato nulla al caso e sono veramente contento del risultato ottenuto, ci ho messo proprio la “faccia”! Il “Premio Peppino Impastato” vinto con “Provate Voi” è stato un altro importante traguardo, una bella soddisfazione. “Provate Voi” è stata la prima canzone registrata per “Faccia” ed è anche la prima in scaletta. Credo sia uno dei pezzi più riusciti dell’album, sicuramente uno dei più apprezzati.
Arriviamo a oggi. In attesa di capire quando e come la musica dal vivo potrà ripartire, ti senti di fare un bilancio di questi tuoi anni di musica? Quali rimpianti e quali progetti invece vorresti realizzare?
Capita di pensare a quando ero un ragazzino, a quando nella mia cameretta passavo le ore a cercare di imparare le canzoni che amavo. E’ passato molto tempo, oggi ho 42 anni, ho pubblicato 3 album e un EP ho vinto molti premi prestigiosi e ho fatto moltissimi concerti.
Ho avuto la possibilità di vivere esperienze incredibili, molti dei miei sogni più grandi si sono avverati. Stare sopra un palco, suonare la chitarra, cantare, scrivere canzoni, tutto questo per me era una sogno, ed oggi posso farlo. Se devo fare un bilancio non può che essere positivo. Forse ho commesso degli sbagli, forse le cose sarebbero potute andare diversamente, ma onestamente fare questi ragionamenti non mi interessa, oggi sono ancora qui, con la mia musica e le mie canzoni, ed ho la stessa voglia di quando ero un ragazzino, amo la musica ancora di più. Ho acquisito una certa esperienza e sono consapevole del fatto che fare musica sia un lavoro stupendo. Quando torno da un concerto sono sempre pieno di adrenalina, faccio fatica ad addormentarmi, rivedo le immagini della serata, ho ancora in testa le canzoni, e penso già alla prossima scaletta, al prossimo concerto, alla prossima canzone che scriverò. In questo periodo di pausa forzata ho la testa piena di idee, ma non so quali di queste veramente si realizzeranno. Forse oggi, la cosa più importante è riuscire a capire come e quando questo lavoro stupendo che è fare musica potrà realmente ripartire, perché la musica è sempre viva, è sempre dentro noi artisti, aspettiamo solo il momento giusto per farla uscire.