Pubblicato dall’etichetta G&M Recorfonic, “Questa Non è Nashville” è l’ultimo disco del cantautore romano Daniele Marini. Un progetto che fonde la cultura country con quella romana in una perfetta armonia di testi e musica. Daniele Marini ci ha raccontato questa nuova avventura.
Daniele una domanda per cominciare: come nasce la tua passione per il country e soprattutto raccontaci come e quando hai pensato di creare questo mix con la canzone romana…
La mia passione per la Country music è nata in modo “laterale”, grazie a band come Pure Prairie League, Mason Profit, New riders of the purple sage, Manassas e tutte le altre che nei primi 70 mescolavano west coast rock e radici country. L’idea di cantare nella mia lingua quotidiana è lentamente maturata in me, che ho sempre scritto in inglese, perché penso che il country, insieme ai suoi cugini più prossimo: il folk e l’hip hop, sia un genere in cui è fondamentale capire il testo per afferrare il senso di un brano. A parte questo non penso al mio genere come ad un mix; non ci sono, a parte la lingua, elementi di folklore romano.
Country e canzone romana, dunque: due generi che potrebbero sembrare lontani ma che secondo te, ci sembra di capire, hanno tanti elementi in comune: ci vuoi spiegare quali?
Il country, come tutto ciò che riguarda la cultura americana, prende forma dalla “fusione a caldo” di varie musiche folk europee (e non solo) e dunque anche italiane. Ci sono poi i temi: tradimento, pentimento, redenzione, canzoni come “Lella” o “Le Mantellate” sono un perfetto esempio di murder ballads.
Per quanto riguarda il titolo, invece, “Questa non è Nashville”, ci vuoi spiegare cosa rappresenta per te?
Il titolo ha un doppio significato; i veri appassionati del genere sanno che ormai da anni il meglio del country non viene più prodotto a Nashville da dove esce per lo più mondezza radiofonica con basi elettroniche e testi “mezzi rappati (male)”. Inoltre è anche il titolo di un brano dell’album e chi lo ascolterà capirà meglio perché “Questa non è Nashville”.
C’è forse un filo logico o se preferisci una linea guida che lega questi brani? Ci riferiamo soprattutto ai testi che ci sembra prendano spunto dalla realtà che vivi?
Non penso ci sia un nesso tra i vari brani se non quello di provare ad essere il più onesti possibile. Il grande Harlan Howard disse che il country era “three chords and the truth” e questa è per me ancora la qualità che mi fa apprezzare più di tutti questo genere. Non cerco la poesia astratta, cerco di scrivere quello che so ma questo non significa che lo abbia necessariamente vissuto.
Di cosa parlano i brani che possiamo ascoltare nel tuo disco?
Le tematiche sono varie: dalla riflessione sul “populismo” fino al mio rapporto con le donne…
Per quanto riguarda la tua storia musicale, invece, ci vuoi raccontare come ti sei avvicinato alla musica e cosa ti ha spinto a registrare il disco: diciamo un tuo percorso personale in sintesi.
Scrivo canzoni dal ’90 e le ascolto ancora da prima. La musica è stata sempre per me il mezzo principale per esprimermi ed interfacciarmi con la realtà. Ovviamente da ragazzino ero un metallaro perso e così ho poi scoperto il punk eccetera. Come molti della mia generazione.
I tuoi riferimenti musicali: quali sono i compositori, americani e non, che per te sono davvero importanti?
Diciamo che sono veramente troppi per scriverli tutti! I miei punti fermi sono giganti come Merle Haggard, Waylon Jennings o Dwight Yoakam Tra i più recenti sicuramente Jamey Johnson, Tyler Childers, Jason Eady, Lori Mckenna e molti altri autori che ammiro moltissimo.
Prima di salutarci parliamo del futuro: hai qualcosa di nuovo di cui vuoi parlarci?
Per promuovere l’album sto portando avanti insieme alla mia band, i Bad New Boys, il G.R.A. Tour! Un giro di tutti i clubs e bar della città più grande e incasinata d’Italia e mi piacerebbe anche qualche serata in giro per il paese.