Appartiene a quella generazione di artisti che dopo Woodstock ha portato nella musica un mondo di emozioni ed esperienze personali e che, crescendo, e’ stata costretta a guardarsi intorno e a descrivere situazioni più legate alla realta’.
Running on, running on empty ..
Running on, running blind ..
Si può riassumere così il percorso creativo di Jackson Browne, compiuto dal suo esordio, avvenuto nel 1972, fino al recente album Standing In The Breach.
Il cantautore è passato a Roma per presentare il suo nuovo lavoro e il tour che terrà in Italia a maggio 2015. Un album caratterizzato da forti contenuti politici e da aperture per climi musicali ed autori importanti per il cantautore, che rappresenta una sorta di “porta bandiera” della musica californiana.
La breve visita in Italia di Jackson Browne si è aperta nella mattina di venerdì 7 novembre con la partecipazione al programma radiofonico e televisivo “Super Max” di Max Giusti (su Radio 2 e Rai 2), dove ha avuto modo di esprimere e ribadire alcuni aspetti caratteristici della sua carriera artistica. “Bisogna salvaguardare gli oceani”, ha ricordato l’artista nel corso della trasmissione, “non solo dal punto di vista dell’inquinamento, ma anche evitando una pesca eccessiva. La vita dell’uomo dipende non solo dalla qualità dell’aria, ma anche da quella degli oceani”. Un tema, quello della salvaguardia dell’ambiente marino, descritto dall’artista in “If I could be anywhere”. L’autore di “The Pretender” è da sempre impegnato in campagne sociali. Anni fa fondò un’associazione chiamata “M.U.S.E.”, caratterizzata per il suo impegno antinucleare che ebbe poi culmine nel celebre concerto “No Nukes” (1979). Nel corso delle sue tournée ha denunciato anche l’impegno americano nel centro-america, tema affrontato anche nel brano “My Personal Revenge” (da “World In Motion”).
Intorno all’ora di pranzo l’artista ha incontrato la stampa nello spazio incontro dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. Accompagnato dal promoter italiano Adolfo Galli e dalla sua interprete, l’artista si è concesso ai giornalisti per parlare del suo 14° album in studio “Standing In The Breach” (il primo di inediti da “Time The Conqueror” del 2008), che contiene anche una delle sue prime composizioni “The Birds Of St. Marks”, scritta nel 1967 e rimasta per tanti anni chiusa nel cassetto. Dal 14 settembre Jackson Browne ha intrapreso una lunga tournée che lo porterà in Italia il prossimo anno. Quattro le date previste (per tutte le informazioni tel. 0584 46477): il 24 maggio a Roma (Auditorium Parco della Musica – biglietti da 35 a 60 euro + d.p. – per info: tel. 06-54220870); il 25 maggio a Bologna (Auditorium Manzoni); il 27 maggio a Como (Teatro Sociale); il 28 maggio a Torino (Teatro Colosseo).
Sono passati sei anni dal suo ultimo lavoro di inediti. Come mai tutto questo tempo? E soprattutto come sono nate le canzoni di “Standing In The Breach”?
I miei album prendono sempre il titolo da una canzone che è contenuta nell’album. In questo caso “Standing In The Breach” (“In piedi nella breccia” nda) è nata circa quattro anni fa, dopo il terremoto che nel gennaio 2010 ha devastato Haiti. Il brano parla anche della nostra capacità di affrontare i disastri. Ma nel disco non mancano riflessioni sull’attualità, l’uso incontrollato delle armi e l’inquinamento. Penso che questo lavoro rispecchi il mio desiderio di rappresentare certe tematiche senza risultare predicatorio, nella maniera in cui ne parlerei con un amico. Abbiamo tutti davanti i disastri politici nel mondo intero.
Disastri che sono stati provocati anche dalla politica degli Stati Uniti d’America?
Mi riferisco non solo ai disastri del mio paese, ma a quelli del mondo intero. Si avverte il desiderio di una rappresentazione più vera di ciò che è stato espresso dalla primavera araba, le proteste di Hong Kong, e a Ferguson, il movimento Occupy. Tutti si devono interrogare. La gente ha capito che il mondo è influenzato dalle sue abitudini e dal suo stile di vita? Tutti vogliono la democrazia, ma poi in pochi ce l’hanno, compreso nel mio paese: chi ha i soldi si può compare le campagne elettorali.
C’entra anche la delusione per il mancato cambiamento avvenuto con Obama, dimostrato dalla recente sconfitta alle elezioni Midterm?
La democrazia negli Stati Uniti non ha a che fare con le recenti Midterm ed il fallimento di Obama. La Corte Suprema, ad esempio, ha messo il suo sigillo su un provvedimento che consente ai grandi gruppi industriali di erogare senza limiti contributi economici a candidati e partiti. E’ probabile però che questo provvedimento verrà revocato perché è anti americano. Oggi il paese è polarizzato. Le recenti elezioni sono state perse da Obama perché i repubblicani avevano abbastanza risorse economiche per accedere ai mass media e da martellare la testa della gente per distorcere il senso dei suoi obiettivi e delle sue iniziative. Io ho votato per Obama sia in occasione della prima che della seconda elezione, ma resto dell’idea che avrebbe potuto essere più progressista. E’ in assoluto il presidente più inclusivo della storia americana. Sicuramente ha fatto politiche buone, ma ha fatto anche cose che non mi trovano d’accordo come la guerra coi droni, le famose riunioni del martedì mattina per decidere la lista degli “eliminandi” e il salvataggio delle banche, che dimostra che anche lui è un prodotto dello stesso sistema che ha creato la crisi attuale. Sono cose che rendono sempre più difficile difenderlo e che inducono molti americani come me a pensare che sia il Partito Democratico che il Partito Repubblicano siano due ali dello stesso partito degli affari. Ancora, non si è intervenuto sulla libera circolazione delle armi: neanche Obama ha cambiato la legge. Non solo. Tante armi inutilizzate dall’esercito, come i cingolati, potrebbero essere rivendute alle forze di polizia locale.
Quest’anno ricorre il quarantennale dall’uscita del suo album capolavoro “Late For The Sky”. Quanto c’è di quel disco in questo nuovo lavoro?
Qualcuno ha detto che un brano come “Standing In The Breach” sarebbe potuto stare in “Late For The Sky”. Io invece penso di no. Sicuramente ci sono delle costanti nella mia musica che tornano. Non penso che avrei potuto scrivere “Standing In The Breach” prima di oggi. C’è da aggiungere però una cosa. Tutti e due i chitarristi che hanno suonato nel disco, Greg Leisz e Val McCallum, hanno un rapporto diretto con David Lindley, che in qualche modo ha influenzato il loro modo di suonare. Dunque c’è un elemento di continuità. Anche se devo dire che ogni chitarrista ha sempre trovato qualcosa di suo da dare e si è legato a me. Si può dire che sono un collezionista di chitarristi.
Come ha trovato l’album tributo “Looking Into You: A Tribute to Jackson Browne”, dove tanti artisti, da Marc Cohn a Bruce Springsteen, omaggiano la sua musica?
Mi ha molto commosso. E’ interessante che sia uscito quest’anno mentre ero ancora al lavoro su “Standing In The Breach”. Ci sono alcuni dei miei artisti preferiti e soprattutto i miei migliori amici. Shawn Colvin, ad esempio, per me è una maestra. Il suo modo di suonare mi ha fatto venire voglia negli anni di esibirmi ad un certa maniera. Un progetto estremamente gratificante. Varrebbe la pena nominare tutti gli artisti. Joan Osborne ha fatto una versione di “Late For The Sky”, che quando l’ho sentita mi ha emozionato tantissimo. Riesce a tirare fuori l’essenza di quello che ho scritto. E’ bello vedere tanti amici che si riuniscono per festeggiarti. Altra versione interessante è quella di “Running On Empty” fatta da Bob Schneider. All’inizio mi avevano detto che avrebbe fatto una versione strumentale. Ed invece ne è venuta fuori una delle migliori esecuzioni di questo brano. A proposito di questo tributo devo anche dire che quando è uscito mi sono un po’ preoccupato. Perché per il mio nuovo album avrei dovuto tirare fuori il meglio.
Tra le dieci canzoni del nuovo album ci sono due canzoni di altri autori. Una è “You Know the Night”, il cui testo è di Woody Guthrie, e che lei ha poi musicato con Rob Wasserman. Com’è nata l’idea di misurarsi con il testo di questo grande artista?
Il testo mi è stato dato proprio dalla famiglia di Woody Guthrie, nell’ambito di un progetto che hanno deciso di realizzare, volto a mettere in musica tutti i testi che l’artista ha lasciato prima di morire. In questo caso si tratta di una lettera. E’ una canzone lunghissima, molto personale e privata, e parla dell’incontro da Woody e sua moglie Nora. Ho dovuto togliere qualcosa, ma non ho potuto più di tanto. Il pezzo è molto lungo e per questo è difficile da ricordare. Infatti quando lo abbiamo inciso avevamo questa lunga lettera in studio e non avremmo potuto eseguirla se non leggevamo. Abbiamo rispettato il linguaggio che Woody ha usato. Per quanto sia una lettera ha dentro tante rime che gli sono venute spontanee. La canzone parla di ideali, di sua moglie e di ciò che volevano fare per il mondo.
L’altro pezzo è “Walls and Doors” del cantautore cubano Carlos Varela, che in questo caso ha adattato in inglese. Come nasce il suo interesse per la musica cubana?
Anche questo è un brano che sento molto mio. Credo di aver ricevuto un regalo enorme, visto che traducendo il pezzo ho trovato qualcosa che mi è veramente vicino. Carlos Varela fa parte della generazione che si è formata negli anni ’90. Carlos è lontano dall’essere portavoce della rivoluzione, rappresenta la generazione di cubani che aspettano il cambiamento. Il suo dire che ci può essere libertà solo se questa non ha padroni dovrebbero capirlo anche i miei connazionali. Tornando al brano, Carlos mi ha invitato a cantare un suo brano in un recital a Cuba. Alla fine, non sapendo quale pezzo scegliere mi sono tradotto tutta la canzone.
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un ritorno della west coast, con artisti e gruppi che si ispirano in qualche modo alla musica e ai valori della sua generazione. Cosa ne pensa?
Credo di assistere ad un ritorno di un certo tipo di valori musicali che si possono accostare alla west coast. Quando parliamo di questo genere dobbiamo pensare più alla musica che alla provenienza dei singoli musicisti: ad esempio James Taylor è accostato a questo genere pur arrivando dalla costa occidentale. Parliamo dunque di valori e del modo in cui i singoli esecutori suonano i propri strumenti. Tutto però dipende dalle scelte dell’ascoltatore. Credo che nella scena Usa attuale ci sono validi musicisti, cresciuti ascoltando musica di ogni genere, ma portatori degli stessi valori in cui credo io. Penso a Jonathan Wilson, Jenny Lewis, Sara e Sean Watkins, e lo strepitoso Blake Mills, che considero un valido chitarrista ed un produttore di grossa creatività. A parte l’età abbiamo molto in comune.