Tommaso Labranca: dalla biografia dei Coldplay a Mu

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Circa un anno fa, su Musicalnews.com pubblicavamo un’interessante intervista allo scrittore e saggista Tommaso Labranca. L’autore, che aveva da poco iniziato l’avventura con la sua casa editrice 20090, si era divertito a ripercorrere alcune tappe del suo percorso di scrittore, che si intrecciavano in qualche modo con alcuni momenti della controcultura italiana.

Tommaso Labranca è sempre pieno di iniziative e progetti. Il 2015 per lui si è aperto con una nuova rivista culturale, Tipografia Helvetica, dal formato lenzuolo, che si occupa di cultura a 360 gradi, ospitando tutto ciò che normalmente non viene ospitato nelle pagine culturali dei quotidiani. E poi ci sono due libri freschi di stampa, che hanno molto a che vedere con la musica. Il primo è “Coldplay. Non cambieremo mai” (Sperling & Kupfer), biografia dedicata alla band di Chris Martin. Il secondo è “Mu”, romanzo che era uscito un paio di anni fo solo in digitale e che oggi, grazie a 20090, ha trovato anche la sua dimensione fisica. Ce lo racconta in questa nuova intervista.

Dopo le biografie su Renato Zero, Orietta Berti, Pietro Taricone e Michael Jackson, arriva quella su una delle band di maggior successo degli ultimi anni. Quando è nata l’idea di realizzare un libro sui Coldplay?

Non nasce da una mia idea. L’editore aveva intenzione di puntare su titoli dedicati agli idoli del pop, così mi hanno contattato, proprio perché avevo scritto quelle altre biografie. A loro volta non decise da me, ma sempre suggerite da chi le ha pubblicate. Se dovessi proporre io libri in cui racconto la vita di artisti o band credo che nessuno oserebbe pubblicarli. Perché sarebbero cose eccessivamente di nicchia. Uno per tutti: Joseph Bologne de Saint-George. Un personaggio incredibile. Nato a metà Settecento nella Guadalupe francese da una schiava e schiavo egli stesso, ma figlio illegittimo di un nobile, arriva in Francia e diventa più francese degli indigeni. Si batte per abolire la schiavitù, prende parte alla Rivoluzione francese prima e a quella americana dopo. Era un abilissimo schermitore e, cosa più importante, un virtuoso del violino, autore di sonate, quartetti d’archi. Insomma, un mulatto che, a fine Settecento, compone come Mozart. Mi fanno ridere quelli che dicono che la contaminazione è figlia dei nostri tempi. Ma quanto potrebbe vendere un libro così?

Quando ti sei avvicinato per la prima volta alle canzoni dei Coldplay?

Dagli esordi. Quando loro uscivano con il primo cd io ero tra gli autori di una trasmissione per ragazzi, “Com’è”, che andava in onda su un canale scomparso, Tele+. Quindi dovevo essere sempre informato su cosa accadeva nel mondo del pop. Non c’è mai stato un grande coinvolgimento, conoscevo le loro hit e basta. Di sicuro li preferivo ai lamentosi Blur o Oasis che trovavo e trovo insopportabili. Dovendo scrivere di loro mi sono dovuto ascoltare tutto quanto i Coldplay hanno inciso e ho scoperto che i loro cd non hanno mai uno o due pezzi piacevoli immersi in un mare di noia. Ogni canzone ha una sua forte personalità. Inoltre, conoscendoli, anche se virtualmente, mi sono davvero affezionato a tutti e quattro. Oggi posso dire di essere un loro fan. E aspetto con curiosità il nuovo cd e, spero, anche il tour.

Il titolo del libro è “Coldplay. Non cambieremo mai”. A tuo avviso, a fronte di milioni di dischi venduti, matrimoni e frequentazioni con lo star system, i Coldplay di oggi sono ancora quelli degli esordi?

Sì. Anzi, hanno fatto un passo indietro. Nel senso che prima di diventare famosi il motto di Chris Martin, imposto anche agli altri, era: “O si diventa famosi o si diventa famosi”. C’era una tensione maggiore verso lo star system, una voglia di arrivare quasi divorante. Dopo (e in parte ancora oggi), quando si sono trovati a un palmo dai grandi nomi del rock e del pop, quasi non ci credevano, si sentivano a disagio. Capitava che al risveglio, dopo una serata passata con Bono che li invitava a un barbecue nella sua villa per il giorno dopo, i ragazzi si telefonassero da una stanza all’altra dell’albergo per dirsi: “Sai, ho sognato che parlavamo con Bono…”

Ultimamente sei molto attivo sul fronte editoriale. Finalmente è uscito “Mu”, il volume che tu stesso hai definito come il seguito ideale de “Il piccolo isolazionista”, probabilmente uno dei tuoi lavori migliori. Questo libro era uscito solo in ebook non per tua volontà. Come sei riuscito a farlo stampare con la tua casa editrice?

Sì, sono fin troppo attivo. Fino a oggi come scrittore ho vissuto su un doppio binario. Da una parte le biografie per grandi case editrici che mi hanno spesso aiutato a raggiungere “la fine del mese”. Dall’altra libri che scrivevo per un pubblico molto ridotto e sui quali non si poteva certo contare per vivere. Non dirò che tengo più agli uni che agli altri. Dico solo che ognuno dei due binari ha la sua importanza. Ultimamente vivo solo grazie a quello che scrivo, siano articoli o biografie. Ogni volta che mi presentano iniziano: “scrittore, giornalista, autore televisivo, conduttore radiofonico…”. Basta. Con la televisione credo di aver chiuso. Mi divertiva farla, oggi non è più possibile, per vari motivi. L’età, per esempio. Sono vecchio e lo spazio oggi è quasi tutto in mano a una nuova generazione di autorini con barbone e una inutile laurea in scienze della comunicazione.

Ah, come ho fatto a stampare Mu. L’editore precedente è fallito, sono passati tre anni dal contratto che non è stato onorato quindi il legale che segue 20090 ha dato parere positivo per una nuova pubblicazione.

Il libro si caratterizza innanzitutto perché ogni capitolo porta il titolo di un brano dei Sigur Rós. Perché ha scelto fosse la musica della band islandese a scandire la vicenda del giovane molisano Mu?

Perché quando ho scritto Mu ascoltavo a ripetizione “Valtari”, per me il miglior disco della band. Però, come specifico nella postfazione, non si deve credere che vi sia legame tra i capitoli e i brani con lo stesso titolo. Sono titoli parlanti, che descrivono quanto viene raccontato. Una serie di piccoli casi fortunati. Davvero non c’è legame tra musica e testo, al punto che i titoli originali in una prima versione di Mu erano nomi di architetti. L’architettura mi ispira molto più della musica quando scrivo e in Mu questo è successo più che in altri libri.

Nelle prime pagine del romanzo si legge: “Anche quest’anno l’ignoto persuasore musicale ha trovato un’enorme platea di consumatori accondiscendenti e irriflessivi. Allora Mu torna subito ad infilarsi gli auricolari conici, li spinge in fondo, fin dove possibile. Si domanda come mai milioni di persone decidano all’inizio di ogni estate di affidare a priori le proprie reminiscenze a uno stesso brano musicale. Magari perché le esperienze sono già programmate e coincidenti”. Poi fai un paragone con le hit estive degli anni passati, che probabilmente avevano più logica rispetto a quelle moderne, poco chiare e confuse. Una critica al sistema che governa l’airplay radiofonico?

Ho detto poco prima che non credo farò più televisione. Credo non farò più nemmeno la radio. Dopo l’esperienza con Play Radio non credo esista oggi un’emittente che possa presentare i miei progetti. La radio vive un momento orrendo. Comico televisivo con battute scadute, intervento della soubrettina tv che non si sa cosa faccia in radio dove le tette non si vedono, disco di Ligabue, blocco pubblicitario, disco di Tiziano Ferro, siparietto dei due che leggono la solita bufala presa da Internet, disco della Pausini, blocco pubblicitario, disco dei Negramaro, telefonata con ascoltatore condotta con voce da presa per i fondelli in stile Gialappa’s. In una radio così potrei al massimo pulire il mixer.
Non ha senso parlare oggi di hit estive in quanto sono fatte con gli stessi suoni e gli stessi ritmi di quelle invernali. Un tempo l’estate era fatta per canzoncine leggere che parlavano di amori estivi che non arrivavano a settembre (anche perché era difficile restare in contatto, senza social o whatsapp). L’inverno era riservato agli LP dei grandi cantautori. Non c’è più quella differenza anche perché gli eredi dei cantautori escono volentieri con un nuovo disco all’inizio della stagione calda così da poter lanciare il tour. Unica fonte di reddito sicuro, vista la diffusa pirateria che rende inutili i dischi.

Non saprei dirti nessun titolo di hit estiva del 2015 perché mi entrano nelle orecchie passivamente, non mi interessano. Solo in un caso ho usato Shazam: per capire chi fosse quella sbraitante gallina padovana cui stavano evidentemente strappando una piuma dopo l’altra. Ho scoperto che si chiama Ariana Grande. Grande fastidio.

A che tipo di individuo si ispirano i protagonisti de “Il piccolo isolazionista” e di “Mu”?

A una persona sofferente di una forma blanda di Asperger. Credo di soffrirne anche io.

Ho molto apprezzato la tua rivista culturale Tipografia Helvetica. A partire dal formato, si tratta di un prodotto affascinante dove dentro ci sono argomenti in grado di suscitare emozioni ed interesse. Ci racconti com’è nato questo progetto?

Ha origini molto lontane. Risale almeno a quando avevo 5 anni e mi avevano regalato una macchina da scrivere semi-giocattolo che scriveva veramente, ma aveva solo le maiuscole. Fu una rivelazione e iniziai a creare subito dei giornali monofoglio. Saltiamo tutta la fase delle fanzine e delle artzine e arriviamo all’autunno del 2014 quando mi telefonò un gallerista-antiquario di Capolago in Canton Ticino. Mi disse che mi leggeva da sempre e che voleva conoscermi. Andai a trovarlo nella sua magnifica casa-galleria, un edificio risalente al Seicento in cui, ai tempi del Risorgimento, era ospitata una tipografia, chiamata Tipografia Elvetica, in cui gente come Mazzini andava a stampare materiale patriottico clandestino. Gli raccontai che uno dei miei sogni era realizzare una rivista culturale in cui non si parlasse di ciò che trovi su Repubblica o sul Corriere. Niente premi Strega, niente best seller, niente grandi mostre, niente mainstream. Era praticamente la filosofia della sua galleria, dedicata ad artisti di pregio, ma poco noti, attivi tra il primo Novecento e gli Anni 70. Così nacque la rivista che porta come nome quello del luogo che ci ospitava, con una acca in più come omaggio al carattere di stampa più famoso del mondo. Ha un formato gigantesco, un A3, e una grafica molto curata dovuta all’altra metà di 20090, Luca Rossi. Siamo arrivati al quarto numero, abbiamo molti abbonati in Canton Ticino e diversi lettori in altre zone d’Europa. In Italia non abbiamo più di cinque/sei lettori. Ma è questo che mi piace: fare qualcosa che non incontri i gusti di chi segue “Che tempo che fa”.

L’ultimo numero uscito è dedicato a Torino. Cosa ti colpisce del capoluogo piemontese?

Per me è la più bella città d’Italia. L’unica per la quale forse lascerei Milano. È una città solo in parte italiana. Dentro ci senti oltre all’inevitabile Francia anche venature di città industriale britannica. Tutto a Torino ha una eleganza che non trovi altrove. Persino i vecchi quartieri operai, i tamarri che girano nei centri commerciali… hanno uno stile che non trovi in altre città. Mi commuove il modo in cui, come spiego nell’editoriale, Torino abbia perso tutto ciò che ha inventato.

Come procede la tua attività con 20090?

Benissimo. Ci siamo già stancati di pubblicare libri e probabilmente diventeremo solo un service editoriale. Non tutti gli scrittori accettano l’idea di una casa editrice che vende solo su Internet. Molti sognano di vedersi in vetrina accanto a Francesco Piccolo, persi in un vortice di tristi presentazioni dentro biblioteche rionali, iscritti a premi letterari. Tutte cose che avevamo precisato di non voler fare fino dall’apertura della partita IVA. Abbiamo presentato male l’affare, come direbbe Totò.

Infine, uno sguardo al futuro. Lo scorso anno avevi accennato ad un libro dal titolo provvisorio “Funemployment”. A che punto è? Ci sono altri tuoi nuovi lavoro in arrivo?

“Funemployment” cambia continuamente! Ultimamente ha preso un’altra forma, più breve, ma non l’anticipo perché tanto cambierà ancora.

Sono di fronte a un cambiamento. Hai presente “Mondi lontanissimi” di Franco Battiato del 1985? Mi è sempre parso che in quel disco Battiato abbia voluto inserire tutto quanto c’era di sospeso della sua produzione “leggera” per mettere la parola fine a un periodo. Ci sono le versioni soliste di due singoli incisi con Alice, c’è una nuova versione del “Re del Mondo”. C’è “Temporary Road” che avevo sentito qualche anno prima in una partecipazione televisiva senza capire cosa fosse. C’è “L’animale” che aveva scritto per Giuni Russo, poi impossibilitata a cantarla per colpa di una discografia ottusa. Insomma, per la gioia dei catalogatori, Battiato aveva radunato in quel disco le sue pecore sparse per poi dedicarsi ad altro, alle esperienze con l’opera.
In piccolo ho fatto lo stesso con “Mu”. Era una pecora sparsa, cui fra l’altro tenevo molto. Così l’ho pubblicata su carta per segnare la fine di un periodo. Ho avuto un primo periodo che è andato dal 1994 (“Andy Warhol era un coatto”) al 2002 (“Neoproletariato”). Un secondo dal 2006 (“Il piccolo isolazionista”) al 2015 (“Mu”). Nel terzo farò ancora qualche biografia. Ne sto scrivendo una in queste settimane estive. Se i progetti che sto mettendo a punto in questi giorni andranno in porto, sarò impegnato a fare cose d’altro genere, nulla a che vedere con la presunta letteratura. Quella la lascio alle signorine ignorantelle che si dicono scrittrici, traduttrici, editor senza possedere una virgola di quell’intelligenza e quel gusto che spacciano nei tristi profili su Facebook. A proposito, sono uscito definitivamente dal social network. Davvero definitivamente.

Uscirà ancora qualche librino della serie “binario di nicchia”. Sto lavorando a quattro progetti contemporaneamente. Ma saranno pubblicati solo in Canton Ticino per la collana “I libri di Tipografia Helvetica”. Quella è una piccola terra vergine dalla grande libertà intellettuale, dove non sei costretto a scrivere solo per compiacere i guru romani e crapuloni della letteratura impegnata.

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