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Daniele Silvestri - Il latitante (Panama – Epic Sony)di: Ambrosia J.S. Imbornone Fate attenzione a Silvestri.Vi diverte.Per poi affondare il colpo.Ed esporvi alla profondità di riflessioni intimiste e politiche.Perché il latitante cerca di fuggire da se stesso,ma vi ritorna.Per guardarsi e guardarci dentro.Dal 19 giugno in tour. “Particolare modo di esprimersi che conferisce alle parole un significato opposto o diverso da quello letterale, lasciando però intravedere la realtà, che si usa per criticare, deridere, rimproverare e sim.” Questa è la prima definizione del De Mauro della parola “ironia”, questa potrebbe essere la prima definizione della cifra stilistica di Daniele Silvestri. E non si tratta solo di un gioco linguistico: il Nostro sfrutta anche i ritmi più ruffiani, dalla dance alle danze latino-americani, in una parodia di codici musicali che veicola i messaggi più profondi proprio quando si lascia andare alle combinazioni sonore più ballabili. Il Sil rilassa, diverte, solletica i palati più facili e…poi, quando le difese dell’ascoltatore sono ridotte a poca cosa, affonda il colpo. Così il suo ottavo album è solo in apparenza un disco spensierato. Il suo doppio fondo è ben visibile già nel singolo-tormentone “La paranza”: i pirotecnici giochi di rime baciate, che esibiscono l’inesauribile e scoppiettante fantasia dell’autore, sommergono, ma non nascondono la malinconia insita nel concetto di base del disco, la latitanza. Per Silvestri, è la necessità della fuga, di una distanza che permetta di ristabilire i giusti contorni delle cose, la crisi e il bisogno di un equilibrio. Anche l’autore si è dovuto allontanare, dai riflettori per dedicarsi alla sua vita privata, dalla musica per “spezzare gli automatismi” e ricostruire le tessiture sonore delle proprie canzoni come se fosse la prima volta. Ma non c’è un posto abbastanza lontano per fuggire da sé stessi: pertanto, il cantautore romano è tornato, galvanizzato da nuove energie creative, al suo lavoro, mettendo un punto alla genesi infinita del disco, come ogni uomo non può perdere per sempre il contatto con la propria vita. Può guardarla da lontano, ma solo per tornarvi ad immergersi. Nel brano sanremese, la fuga è solo una sospensione dei problemi, un tentativo di allentare i lacci di chi forse non sentirà alcuna mancanza, ma che è destinato irrimediabilmente a mancarci. Si può giurare di dimenticare, ma “il suo nome nella notte si diffonde lentamente” (“Il suo nome”), riecheggia come un’ossessione, come una minaccia; d’altronde se scappare implica rifugiarsi nella solitudine, anziché dimenticare sé stessi, si corre il rischio di doversi fronteggiare e analizzare senza schermi e illusioni. E “guardare in faccia il buio” fa ancora più paura, come insegna “Sulle rive dell’Arrone”: questa ballata rock, in cui le chitarre elettriche di Maurizio Filardo si fanno rasoi affilati a scavare profondo il “vuoto di inquietudine”, ci mostra il Silvestri più cupo e diretto. Se Daniele ci aveva abituato a canzoni d’amore disperato dissimulato in brani orecchiabili e tragicomici, come “L’Y10 bordeaux” del primo album (1994) a “Sempre di domenica” dell’ultimo (“Unò-duè”, 2002), qui la maschera ironica è rimossa e scopre una passionalità torbida, che annega nel “senso più malato della parola eterno”. Anche “Mi persi” è un episodio di disarmante sincerità, ma l’ironia torna nelle altre canzoni a mescolare le carte e i generi musicali. Così nel swing di “Prima era prima”, all’insegna del pianoforte, il cantautore promette di ritirare presto la sua tiritera e abbandonare le sue battaglie socio-politiche, ma nel frattempo spara sull’inflazione, il cachet della Ventura e l’ “agonia della cultura”. “Ninetta Nanna” è una nenia da carillon, con coda strumentale di solo piano degna di un film muto; da dolce e romantica diventa un’accusa al materialismo e uno stornello romanesco su chi finge “di essere dentro una vita priva di imposta”, lasciando un’ombra inquietante sulla natura della scappatoia trovata lontano da debiti e debitori. Poi non mancano le staffilate politiche: se “La paranza” appunta il suo sarcasmo su latitanti sotto gli occhi di tutti, “sulle spiagge di Rimini”, e sui processi emigrati per legittimo sospetto, il valzerone da balera “Che bella faccia” si traveste da panegirico per fare invece chiara satira sull’innominato ex premier Berlusconi, sul suo sorriso “da guancia a guancia”, che lo rende “forte e simpatico come uno zar” (ma poi arrivò la Rivoluzione…). Chiara presa di posizione è anche la travolgente “Gino e l’alfetta”, che sembrerebbe un’irrispettosa e caricaturale hit per drag queen da discoteca, ma sfrutta invece il luogo comune della dance anni ’70 come ideale colonna sonora omosex per un manifesto rivoluzionario più efficace di qualunque gay pride. “Sono gay fatti miei / che disturbo ne hai / quale enorme disagio ne trai?”, chiede Silvestri agli omofobi più provinciali, sottolineando il paradosso di una sessualità “tollerata” solo negli eccessi che si prestano alla sua spettacolarizzazione e i pregiudizi che bollano come immorale la vita privata anche di persone stimabilissime e di grande intelligenza: “Ma lo sai quanti geni ed eroi sono gay / non lo sai?/o non vuoi ricordare / preferisci pensare / che un gay sia una sorta di errore?”.Tradizionale ballad in salsa silvestriana agrodolce è “A me ricordi il mare”, scritta e cantata con Andrea Vincenzo Lezzi (Bove) degli Otto Ohm, nella quale persino “il sudoko che non torna” con “quello che era già scritto a penna” che “è già da cancellare” diventa emblema dei progetti instabili che si disfanno sotto le mani e sotto gli occhi sofferenti del protagonista, stanco dell’eterno fluttuare degli umori della sua lei. Non ci sono parole o rime bandite dalle canzoni di Silvestri: è probabilmente l’unico che possa utilizzare efficace 0e in una metafora “un programma di Socci” o azzardare il political incorrect di realistici versi come “se mi vedi vomitare / non ti devi preoccupare” (“Il suo nome”), senza diventare volgare o rozzo. Sarà che nutre autentica ed evidente passione per quello che fa: così un suo disco diventa anche un raduno per amici musicisti. Nell’album troviamo allora la tromba di Demo Morselli, il basso acustico di quello stacanovista innamorato delle sette note che è Max Gazzè, sempre pronto ad eclissarsi come protagonista per ri-diventare strumentista, e poi persino voce, versi, strumenti dei leggendari Inti Illimani per la canzone di chiusura, “Ancora importante”, che infrange l’indifferenza per ricordare quello che brucia ancora, anche quando è presentato come un incidente da dimenticare. Che il riferimento sia alla morte di Carlo Giuliani in quel di Genova? Quel che è certo è che la coppia Silvestri – Enzo Miceli ha sfornato l’ennesimo disco di cui ascoltare attentamente le risonanze interiori. Senza fermarsi alla voluta e lustrata superficie orecchiabile, che, tra gli episodi pianistici di bellezza classica, strizza l’occhio alla commercialità, per superarla con lo spessore della denuncia e della riflessione intimista. Bentornato, Sil. Articolo letto 16173 volte Riferimenti Web
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