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R.E.M.: How Verona Was Wondi: Ambrosia J.S. Imbornone E' lontano quel 5/04/1980 in cui Stipe,Mills,Buck e Berry diedero vita ufficialmente ai R.E.M.Ma il memorabile concerto nella splendida arena di Verona del 21 luglio dimostra che la band ha ancora eguale entusiasmo,energia,candore.R.E.M.rocks! A voler sintetizzare lo stato di salute dei R.E.M. dopo il concerto di Verona, si può ricorrere facilmente ad uno slogan d’uso comune: R.E.M. rocks. Ed è superfluo precisare che si intende musicalmente. 28 anni di carriera non hanno fiaccato la grinta della band di Athens, che, dopo due album che rischiavano di risultare piatti, è tornata con “Accelerate” ad affondare il piede sull’acceleratore con un dignitosissimo disco energico e graffiante, che forse statisticamente è persino al di sotto dei soliti standard in quanto a percentuali di ballate. Pertanto, teatro lirico o meno, anche la storica arena veronese non poteva che essere travolta da quel flusso costante di emozioni (disagio, orgoglio e paura di essere sé stessi, voglia di lottare contro l’esistente per cambiarne i caratteri e superarlo, nella vita pubblica come in quella privata) che Michael Stipe e soci veicolano sul palco. In scaletta colpisce la rinnovata presenza e soprattutto la bruciante efficacia che mantengono ed anzi ritrovano le copiose canzoni estratte da “Monster” (1994): è durante “What’s the Freequency, Kenneth?” che per la prima volta il pubblico balza in piedi e vi resterà quasi ininterrottamente, dopo l’autorizzazione ironica di Mike Mills. Frenetico e ossessivo è il ritmo di “Star 69”, mentre un’inaspettata perla che vela gli occhi di commozione è un’intensa “Strange Currencies”, inno all’inevitabile costanza dell’amore disperato. Un sound deciso, ma anche sperimentale assume infine “Let Me In”, che in un conciliabolo sulla sinistra del palco diventa ballata per chitarre acustiche e synths, acquistando un maggiore spessore di risonanza interiore e lampi aggiunti di autenticità che sanno dare i brividi. Ma il primo posto sul podio per la canzone più emozionante della serata è sicuramente molto conteso: “Cuyahoga”, con i riff di basso di Mills e i delicati ricami della chitarra di Peter Buck, bagna lo sguardo dei fan di tutte le generazioni, e un tuffo al cuore dà la struggente coda strumentale di “Country Feedback”, con uno Stipe pensoso, seduto su un amplificatore di spalle al pubblico, con lo sguardo perso tra i suoi pensieri, un grande assolo di Buck che dialoga con la seconda chitarra di Scott McCaughey e il piano di Mike Mills. Il calore tipico del pubblico italiano dal canto suo rende d’altronde semplicemente unici i concerti dei R.E.M. nel Bel Paese; il trio risponde all’affetto dei suoi fan con spontaneità e generosità. Solo i magnifici maxischermo sullo sfondo con le riprese in diretta della band e degli spettatori che affollano la spettacolare, ma ordinata arena, ricordano che si hanno davanti le star internazionali che nel 1996 rinnovarono il loro contratto con la Warner con la cifra record per l’epoca di 80 milioni di dollari. Il terzetto nato come quartetto in Georgia non sembra prendersi troppo sul serio: le presentazioni delle canzoni non hanno il sapore dell’ufficialità, ma sono sempre intrise di un pizzico di autoironia e del gusto semplice di lanciare nell’etere un altro brano di sicuro effetto. Quando Michael introduce l’inquieta “The Great Beyond”, la politica “Ignoreland”, o quella che definisce la sua canzone preferita di “Accelerate”, la coinvolgente “Hollow Man”, sembra chi sta per recapitare un bel regalo e pregusta la luce che si accenderà negli occhi di chi lo riceverà. Ogni brano farà cantare, ballare, saltare, e il gruppo sembra ben consapevole della precisa reazione che susciterà ogni pezzo in scaletta e orchestrare con maestria i sentimenti della platea e delle gradinate veronesi. Così nella setlist sono dosate con la massima attenzione le chicche del passato, riaggiornate alle sonorità dei R.E.M. più maturi: pezzi come “Wolves, Lower” (dal primo EP “Chronic Town”) o “7 Chinese Bros” (da “Reckoning”, 1984) perdono la dinamica di pieni e vuoti dei pezzi giovanili, ma corroborano e caricano di storia, di motivazione e di passione l’attuale sound rock ruvido e incisivo della band. La gestualità e i cori del pubblico sono diretti con entusiasmo in un’aria di festa da Stipe, che nella scatenata “It’s the End of the World As We Know It (And I Feel Fine)” controlla la temperatura della serata incitando il pubblico ad urlare i suoi “fine!”. A 48 anni infatti il carismatico frontman avrà abbracciato un look più compito, presentandosi in un impeccabile completo nero, ma non ha perso un briciolo della sua energia contagiosa né una goccia del candore dei suoi sorrisi, che accarezzano ancora quasi stupiti il pubblico dell’ennesimo sold out della sua carriera. Il feeling che Stipe e i suoi riescono ad istituire con il loro pubblico è così una rete palpabile di intese e di consonanze, di emozioni e di idee. Articolo letto 6319 volte Riferimenti Web
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