Luca Carboni: il mio Autoritratto
di: Massimo Giuliano
Incontro con il cantautore bolognese per parlare del suo ultimo libro e dell’imminente tour ad esso collegato Della sua generazione, quella cresciuta a pane e cantautori ma che, rispetto a questi ultimi, ha avuto un’impostazione più rock e meno folk, è forse tuttora l’unico esponente. Lui è Luca Carboni, autore di immortali classici della musica italiana come “Farfallina”, “Silvia lo sai” e “Ci vuole un fisico bestiale”. Lo abbiamo incontrato a Roma in occasione della presentazione del suo primo libro, “Autoritratto”.
Luca, come mai ti sei deciso, dopo vent’anni di carriera, a pubblicare un libro?
«Dal 1984, anno in cui ho realizzato il mio primo album, conservo dei quaderni in cui annoto pensieri, idee, sensazioni. Ho cominciato a farlo dopo che me lo ha consigliato Lucio Dalla: mi disse che bisogna sempre girare con carta e penna, per tenersi in allenamento ed evitare che qualche buona idea possa sfuggirti. Ho seguito la sua dritta, e da allora non mi separo mai dal mio zainetto con dentro tutto il necessario. “Autoritratto” è nato così, condensando vent’anni di questi appunti in un libro che in qualche modo racconta non solo la mia storia, ma quella di tutta la mia generazione».
È vero: ad esempio, nel primo capitolo parli degli anni ’80…
«Io credo che il periodo da me vissuto ai tempi della pubblicazione di “E intanto Dustin Hoffmann non sbaglia un film” (il suo primo disco, uscito nel 1984, n.d.a.) sia stato magico; ci trovavamo all’inizio degli anni ’80, quindi fra le reminiscenze del decennio appena concluso e tutti gli stimoli che il nuovo decennio stava portando: penso, per esempio, alla new wave. I Talk Talk, tanto per citarti un gruppo che amo molto anche se parecchio diverso musicalmente da me, erano geniali. Era naturale che nel libro parlassi degli anni ’80, anche perché farlo significava parlare di un’intera generazione, la mia, che del resto avevo raccontato anche nel primo album: “Ci stiamo sbagliando” o “Giovani disponibili” ne sono una testimonianza».
Hai parlato del tuo primo disco: cosa ricordi di quel periodo? Avesti la sensazione di essere arrivato?
«No, questa sensazione non l’ho mai avuta, e ancora oggi non ce l’ho! Di quel periodo non ricordo cose del tipo “la prima volta che ho sentito una mia canzone alla radio”, ma ben altro, soprattutto i primi concerti: un’esperienza molto bella».
Che differenza c’è fra lo studio di registrazione e il concerto?
«La performance live è sicuramente più viscerale: io ad esempio dal vivo devo cantare più forte che in studio perché non mi sento bene, e poi c’è un contatto più diretto con il pubblico, per cui è naturale che anche il sound della band (e dei brani che suoni) sia più corposo, più rock. In studio, invece, hai più la possibilità di sperimentare, di provare varie soluzioni».
C’è chi dice che per fare concerti si debba essere esibizionisti, e questo contrasta con la tua proverbiale timidezza: come sei riuscito a conciliare questo tuo essere così riservato con la voglia di esprimerti mettendoti in primo piano?
«In realtà io sono sempre stato affascinato da chi lavora “dietro le quinte”, e anche a me tuttora piace considerarmi uno che lavora dietro le quinte presentando qualcosa di suo agli altri. È come se lavorassi dietro le quinte di me stesso! Quando suonavo con la mia band (i Teobaldi Rock, n.d.a.) non mi interessava cantare: era il processo creativo, ciò che sta dietro a una canzone, a interessarmi davvero. Credo che ancora oggi sia così».
Ed è per questo che, nonostante il successo che hai avuto, non ti sei montato la testa?
«Mah, guarda, io sono sempre stato impaurito dal successo: se non sei preparato, quando arriva può farti male. Puoi perdere il contatto con la realtà, farti risucchiare nei meccanismi del music business e quindi non essere più te stesso. Io invece, proprio perché spaventato dal successo, mi sono sempre tenuto alla larga da certe situazioni, e in tal senso anche il fatto di essere rimasto a vivere a Bologna, piuttosto che trasferirmi in un’altra città, mi ha aiutato a non recidere certi legami».
Torniamo al libro: mi ha colpito la presenza, al suo interno, di molti tuoi “disegnini”, come li chiami tu.
«La passione per l’arte figurativa è qualcosa che, nel tempo, mi ha preso sempre più: in questi ultimi anni ho persino sacrificato, alcune volte, la musica alla pittura. Anche in quei quaderni di cui ti parlavo prima, insieme a racconti che non pubblicherò mai e a inizi di romanzi mai terminati, ci sono diverse immagini realizzate da me. Quando il progetto di “Autoritratto” ha preso piede, è stato naturale inserirvi anche queste cose».
Tu, quindi, oltre a far musica, dipingi: quali quadri hai in casa?
«Solo quadri miei, e non per narcisismo, ma perché credo che sia giusto che un bel quadro non appartenga a una sola persona, ma a tutti: dovrebbe essere esposto in un museo, così che chiunque possa godere della sua bellezza, e non dovrebbe esserci la possibilità di comprarlo».
In “Autoritratto” ricorrono spesso due simboli: la mezzaluna e la stellina.
«Quando ero piccolo vedevo queste due icone e ne ero affascinato: avrei saputo solo qualche anno più tardi che sono simboli dell’Islam. Mi hanno sempre comunicato un senso di serenità, e così ho deciso di utilizzarli».
Come mai dal libro è scaturita anche l’idea di un tour, che partirà a fine aprile?
«Ho pensato che sarebbe stato bello raccontarmi attraverso un tour che, essendo slegato da un nuovo album, potesse svilupparsi in maniera diversa, più libera. Quando realizzi un cd sei in qualche modo “schiavo” delle canzoni in esso contenute, perché per promuoverlo devi privilegiare, nel live, l’esecuzione dei pezzi nuovi. In un tour che viene realizzato senza che sia uscito un nuovo disco, invece, puoi permetterti di riesumare anche vecchi brani che magari non canti da tempo; ed è quello che farò. Ecco quindi da cosa è nata l’idea dell’Autoritratto tour: da un’esigenza di narrazione che poteva trovare il suo naturale sbocco in un progetto come questo, attraverso un percorso fatto di canzoni».
Già, le tue canzoni: ce n’è una in particolare che preferisci?
«No, non c’è. Le amo tutte, indistintamente!».
Un mese fa si è svolto il Festival di Sanremo, e io voglio rivolgere anche a te una domanda ormai classica, dato il fuggi fuggi di star che si è verificato: tu andresti al Festival?
«No, non ci andrei, e per un motivo molto semplice: a Sanremo devono andare quelli che hanno bisogno di farsi conoscere, perché il Festival è un ottimo trampolino di lancio. Un Festival con grandi nomi secondo me non avrebbe senso: mettiamo il caso che vi partecipino Vasco Rossi, Eros Ramazzotti e altri cantanti italiani famosi. Il giorno dopo sarebbe un casino, perché i loro album uscirebbero tutti insieme e i discografici si scannerebbero».
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