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Il mondo è bello secondo i Take Thatdi: Massimo Giuliano Insomma, signori, alla fine sono ritornati anche i Take That! Cosa ne pensiamo di "Beautiful world"? Ve lo diciamo in questo articolo. C’era chi, come il sottoscritto, all’epoca aveva 16 anni o poco più, e tutto sommato non era esaltato dalla loro musica (anche se “Back for good” gli piaceva). C’era chi, come tante ex ragazzine, teneva i loro poster in camera e ascoltava le loro canzoni dalla mattina alla sera. C’era chi, come le madri di queste ex ragazzine, era costretto ad accompagnare la propria figlia al concerto, perché era troppo piccola per mandarla da sola. E c’era chi, già dieci anni fa, era troppo “vecchio” per capire ed apprezzare questo vero e proprio fenomeno di massa che si era andato delineando: così, per spiegare le ragioni di tutto questo successo, si appellava alla celebre Beatlesmania. Del resto, se negli anni ’60 c’erano i “Fab Four”, negli anni ’90 era già tempo di parlare dei “Fab Five”. Tutto questo, prima che Robbie Williams lasciasse la band e ne decretasse, di fatto, la fine. Parliamo dei Take That, che a dieci anni dal loro scioglimento hanno deciso di rifarsi vivi. “Beautiful world” segna il loro ritorno, ma per piacere, non venite a dirci che questo è un disco dei Take That. Sarebbe più corretto dire che questo è un album di Gary Barlow con i Take That. Forse era così anche prima – in fondo, la mente compositiva del gruppo è sempre stato lui – ma se avete mai ascoltato “Open road” (il suo primo cd solista) capirete di cosa stiamo parlando: ora prevale fortemente, come già era accaduto per quel lavoro, la vena romantico-melodica che è sempre stata una prerogativa di Barlow (oltretutto, tranne che in una manciata di canzoni, qui la voce principale è sempre la sua), con il risultato che il “marchio di fabbrica” Take That – quello per il quale sono entrati nell’immaginario collettivo, e cioè la dance con tanto di balletti sexy, che ha aperto la strada a tutte le boy band degli anni seguenti – viene a mancare. Per carità, tutto ciò è un pregio, sia perché quel fattore era stucchevole e al limite del trash, sia perché oggi, da quattro uomini quasi quarantenni, sarebbe stato quantomeno ridicolo aspettarsi ammiccamenti e mossette che possono confarsi sicuramente di più a dei ventenni. E allora cosa fai per dimostrare che sei cresciuto, che sei maturo, cercando di non “sputtanarti”? Semplice: punti tutto sulle ballad, mentre la telecamera stringe sul tuo viso serio e riflessivo. La scelta più ovvia e, allo stesso tempo, più saggia. Il risultato è che “Beautiful world” non è da considerarsi una prova negativa, ma c’è il contraltare della possibile noia, visto che si tratta di una raccolta di canzoni di taglio “soft”, o che al limite – ma senza mai uscire dal seminato – azzardano qualche ritmo leggermente più vivace, come nel caso di “Reach out” e della title-track. Quest’ultima, tra l’altro, dimostra che talvolta in questo album, sebbene con grandissima timidezza, c’è anche il tentativo di proporre qualcosa di nuovo per lo stile Take That, magari citando qualcun altro: la chitarra di “Beautiful world”, che richiama i Coldplay di “Fix you”, ne è un chiaro esempio. Ad essere onesti, però, si tratta dell’unico elemento sopra le righe, che fa il paio con lo spirito molto british di “Shine”. In fondo i Take That, più di tanto, non hanno bisogno di ingegnarsi: se, ascoltando questo disco, viene da pensare che la musica è “datata” e smielata, è opportuno considerare che questo genere lo hanno inventato proprio i Take That, e che di certe cose – sia a livello scenografico sia, seppur in misura largamente inferiore, a livello musicale – Barlow, Owen, Donald e Orange sono stati i precursori. E in tale discorso, alla fine, c’è da segnalare anche una cosa bella: che con questo cd i Take That ci fanno tornare indietro nel tempo, alla nostra adolescenza, a quei tempi in cui tutto era più semplice, perché c’era meno da fare, c’erano meno problemi. Ecco, dunque, che “Beautiful world” si rivela un album romantico ma anche con un piccolo retrogusto malinconico, che racconta di quattro ragazzi diventati grandi, ormai fattisi uomini, in alcuni casi con famiglia, che hanno attraversato momenti difficili dovuti alla post-ubriacatura da successo (droga per Gary, depressione per Howard) e che alla fine, per amore della musica (o per nostalgia dei bei tempi?) sono tornati insieme. Articolo letto 5859 volte Riferimenti Web
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