Franco D’Andrea Quartet - Dancin’ structures (Backbeat)
di: Andrea Del Castello
Franco D’Andrea si circonda di giovani musicisti pieni di talento e si rivolge alla Backbeat, etichetta discografica che mira alla qualità. Il tutto con il supporto della SIdMA, Società Italiana di Musicologia Afroamericana. Franco D’Andrea si circonda di giovani musicisti pieni di talento e si rivolge alla Backbeat, etichetta discografica che mira alla qualità. Il tutto con il supporto della SIdMA, Società Italiana di Musicologia Afroamericana.
Che gioia!
Il disco, la band, il loro sound, ma è soprattutto una gioia sapere che un musicista del calibro e della fama di Franco D’Andrea decida di pubblicare un disco con una piccola etichetta come la Backbeat, un marchio indipendente, alla faccia di quei personaggi che non si discostano minimamente da scelte di tipo imprenditoriale e che trattano solo con grandi case discografiche.
E alla fama di cui gode questo pianista nel mondo del jazz fanno sempre riscontro grandi dischi, come “Dancin’ structures”, realizzato con Andrea Ayassot (sax soprano e contralto), Aldo Mella (basso acustico) e Zeno De Rossi (batteria e percussioni). Un ensemble d’elevato rango e che manifesta in ogni momento feeling, sicurezza e grande senso ritmico, come accade ad esempio in “m2+M3”, brano costruito attorno a un continuo intreccio di sax e piano; anche nelle sezioni in cui uno dei due strumenti sembra prevalere non si avverte mai una definizione individuale del sound, che resta sempre risultato di un collettivo, al contrario, ad esempio di “Jus d’orange”, nella quale il baricentro si sposta verso una costruzione di matrice individuale. Questo avvicendamento di impostazione costruttiva dei singoli pezzi denota un’ottima visione architettonica del disco.
Piacevolissimi anche i richiami ai vari stili e generi: nel brano summenzionato, intriso di swing, si avverte anche un forte profumo sudamericano, mentre i ritmi africani caratterizzano “Whole tone area” e “Dancin’ thirds”. Ancor più singolare l’influenza di “Empty areas”, un brano dal ritmo estremamente pacato, il cui unico crescendo conduce verso un nucleo di cinque note del piano che ricorda, in questo frangente, un accompagnamento per arie da camera, nelle quali solevano spesso esibirsi, appunto accanto ai pianoforte, voci di soprano e contralto, vale a dire, lo stesso registro dei sassofoni utilizzati in questo disco.
Dunque il disco è perfettamente strutturato nella piacevole alternanza di ritmi lenti e veloci, atmosfere soffuse e agitate, sezioni di matrice collettiva e individuale e, per quanto concerne quest’ultime, ma qui appare più scontato, per l’alternanza degli strumenti in assolo.
Questa osservazione porta di conseguenza ad una riflessione di carattere generale: ogni brano acquista maggiore o minore senso a seconda di ciò che lo precede e ciò che lo segue (non è un fenomeno prettamente musicale: per la linguistica vale la sintassi, mentre nel cinema si definisce “effetto Kulesov”). Purtroppo, però, questo concetto basilare non si attua di frequente nel mondo discografico e ciò risulta inconcepibile considerando l’esperienza, se non dei musicisti, almeno dei discografici.
Tornando all’intelligente struttura di “Dancin’ structures”, essa si impreziosisce del colpo di coda che il Franco D’Andrea Quartet imprime con la conclusiva “Dancin’ thirds”: la sezione ritmica dal sapore africano sembra una pentola in ebollizione che possa esplodere da un momento all’altro, ma poi il contenuto musicale diverge verso un pattern caraibico e tutto resta sospeso in una dimensione instabile e transitoria, fino alla sezione conclusiva, in cui il brano volge al declino e svanisce con l’implacabile caducità delle cose terrene. È proprio questa la grandezza: mediante l’astrattezza della musica questa band definisce atmosfere così cariche da farle vivere all’ascoltatore come esperienze plurisensoriali che l’uomo vive quotidianamente.
Non si fa in tempo a gustarlo che il disco è già digerito. Non resta che digitare di nuovo “play”… ad libitum.
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