Quello che gli altri non dicono (più) dei Coldplay
di: Alessandro Mallozzi; Fonte: www.alicenonlosa.it
Un concerto rock all'Arena di Verona è un'occasione unica nel nostro paese per ascoltare anche la musica considerata "non colta" senza l'immancabile "croce" della pessima acustica dei palasport. Ed i Coldplay, preceduti da Ashcroft l'hanno onorata Che vogliate ammetterlo o no, Richard Ashcroft è certamente da considerarsi uno dei più importanti autori di canzoni degli ultimi quindici anni. Peccato che le scelte in fase di produzione, soprattutto nei due album in solitudine seguiti allo scioglimento dei Verve, ci sembrano soffocare piuttosto che esaltare composizioni mai meno che buone. L'indubbia passione del cantautore di Wigan per gli arrangiamenti orchestrali è un marchio di fabbrica ormai collaudato, ma rischia altresì di diventare un pesante fardello per canzoni che chiedono soltanto di essere suonate con una chitarra acustica ed un pianoforte: come stasera all'Arena di Verona, dove il Nostro esegue un set di circa un'ora ripescando a piene mani dal proprio intero repertorio, con particolare riguardo verso quegli "inni urbani" che lo hanno reso celebre presso il grande pubblico: Sonnet, Lucky Man, The Drugs Don't Work, l'immancabile Bittersweet Symphony (con l' altrettanto immancabile campionamento di una sezione d'archi di rollingstoniana memoria), accanto alle più recenti perle Check The Meaning, Nature Is The Law e qualche rarità come quella Lonely Soul ascoltata qualche anno fa in "Psyence Fiction" degli UNKLE di Dj Shadow e James Lavelle.
La voce di Ashcroft si è sparsa per l'Arena ed ha colpito al cuore proprio tutti, e la standing ovation è parsa il tributo meritato e commosso ad un'artista che non merita affatto di essere destinato all'oblio.
Di certo non sono destinati all'oblio i Coldplay di Chris Martin, l'escalation dei quali da band del circuito indipendente (chi di voi custodisce gelosamente la copia del Brothers & Sisters EP pubblicata per l'etichetta culto Fierce Panda nel '99?) a superstar in grado con le proprie scelte artistiche di reggere le sorti della multinazionale EMI, ha certamente colpito molti, reso felice moltissimi e scontentato pochi, i soliti, che non hanno mai perdonato al buon Chris di aver tradito il verbo del "vero musicista indie", refrattario a qualsivoglia frequentazione nell'ambito dello stardom "ufficiale" e meglio ancora se un po' sfigato: la relazione con una famosa attrice hollywoodiana ha sancito il definitivo allontanamento di Chis Martin con annessa band al seguito dalle simpatie dei critici della stampa musicale alternativa.
Ma la musica?
Qualcuno l'ha ascoltata?
"X & Y", terzo album della band inglese, è un piccolo miracolo di musica pop di qualità. Sebbene non troppo differente dai due predecessori "Parachutes" e "A Rush Of Blood To The head" (giusto qualche passaggio in più in odore di new wave), mostra una band in grado di inanellare una sequenza di composizioni mediamente più che buone, con una cura maniacale ma mai parossistica per i particolari. Una "perfezione formale" che può disturbare chi dalla musica richiede una buona dose di spontaneità, ma certamente apprezzabile per il grande senso della misura, l'innata capacià di Chris Martin e soci di non lasciarsi andare a tentazioni di magniloquenza o a cadere nel pop più melenso.
Il set proposto questa sera lascia largo spazio alle nuove composizioni: l'efficace Square One posta in apertura vede il batterista Will Champion cimentarsi in una parte ritmica vicina a certi Radiohead (e l'influenza del batterista della band di Oxford, Phil Selway, nella tecnica di Champion pare piuttosto evidente anche in altri momenti), Speed Of Sound nella quale la voce, non sempre impeccabile ma fortemente suggestiva, di Martin riecheggia in tutto il suo splendore, ed ancora la soffice ballata What If e l'energica White Shadow, eseguite con passione e senza sbavature. Non mancano i ripescaggi dagli album precedenti: efficace lo stacco tra la già citata Square One e la liberatoria Politik, una delle esecuzioni migliori della serata, con una magnifica chiusa al pianoforte.
Ed ancora God Put A Smile Upon Your Face, l'inattesa Warning Sign e l'immancabile inno pop di Yellow, intonato a gran voce da tutto il pubblico. Intensa ci è parsa la parentesi acustica, con Chris Martin e soci a pochi passi dalle prime file ad eseguire la bella 'Til The Kingdom Come, immancabile traccia fantasma di "X & Y", e la perla Don't Panic, da annoverare tra le più belle composizioni della band inglese.
Certamente i Coldplay non aspirano a rinnovare la musica rock, a spostare in là i confini di ciò che s'intende con la comune accezione di pop, come gente quale Radiohead e Bjork ha fatto negli ultimi anni, passando proprio per questo palco, ma altrettanto sicuramente dimostrano di saper elevare di molto la media di quanto la musica pop offre oggi al pubblico, con dischi ispirati e concerti – come quello di questa sera – belli ed intensi, eseguiti da una band tecnicamente preparata.
Una serata speciale, per i fan della band come per i semplici appassionati (anche provenienti dal resto d'Europa e dagli Stati Uniti), macchiata soltanto dal comportamento di una cospicua fetta di pubblico, chiassoso e disordinato come solo il pubblico italiano più becero sa essere, quasi incapace di onorare con un comportamento dignitoso un luogo che il mondo ci invidia.
Solo il tempo potrà dire se la band inglese saprà mantenere questi standard a lungo, di certo riteniamo sia un peccato storcere il naso di fronte ad uno dei rari casi nel music business in cui la qualità di un'opera va a strettamente a braccetto con la sua commerciabilità.
Vince “novocaine” Ostuni
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