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Interviste
Pubblicato il 08/04/2014 alle 16:37:07Commenti alla notizia: Leggi - Inserisci nuovo

Dagli U2 a McCartney, quattro chiacchiere con Stefano Mannucci

di: Adila Salah

Stefano Mannucci, caporedattore de Il Tempo, si racconta attraverso gli aneddoti che hanno contraddistinto il suo percorso giornalistico.

È la sera del 3 Aprile e il salotto è quello del N'importe quoi.

Siamo in attesa di The Niro per un'altra tappa della rassegna di incontri pensata e diretta da Stefano Mannucci. Nel frattempo riesco ad avere l’occasione e l’onore per fare quattro chiacchiere con il caporedattore de Il tempo fuori dalla libreria, mentre già si respira una piacevole aria di primavera.
Ha un bagaglio enorme di esperienze e aneddoti da raccontare Stefano, e mi accorgo subito che parlare con lui è come avere a disposizione un’enciclopedia della musica sulla scrivania. Ma con il suo modo di fare divertente e spontaneo, risponde alle domande che ho pensato per lui, direttamente al microfono del mio iPhone.
Ecco qui cosa ne è uscito!

Stefano, tu nasci a Roma nel 1958, lo stesso anno di Modugno che a Sanremo fa il gesto di aprire le braccia diventando così il simbolo dell'Italia che cambia. Un sincronismo perfetto vista la tua passione per la musica.
Quanto questa immagine influisce nel tuo percorso personale?


Dunque, devi sapere che il 45 giri di Volare è uscito più o meno nelle stesse ore in cui sono nato io, il che non ha niente a che vedere naturalmente con il successo di Modugno. Però se uno ci mette anche dei piccoli segni personali per dire a se stesso "Beh, sono nato nel momento in cui c' è stata questa meraviglia!", in cui lui apre le braccia come nel dipinto di Chagall da cui era stata tratta l'ispirazione per fare quel brano invitando l'Italia a prendere fiducia e speranza e a volare dopo i disastri della guerra e avviarsi verso un benessere interiore e sociale, allora anche se tu non lo sai o se lo vieni a sapere molto tempo dopo, sicuramente questo influisce perché qualcuno intorno a me la cantava quella canzone quando ero piccolissimo. Lì c'è un imprinting, c'è un marchio spirituale che ti viene dato e sul quale tu ti ci giochi una leggenda personale, e anche se non fosse vero ci credi e ti piace crederci. Sicuramente ha influito moltissimo questo.

Durante il tuo percorso in campo giornalistico hai intervistato tanti grandi artisti come ad esempio Paul McCartney. Chi ti é più rimasto dentro e perché?

Devo dirti che ci sono un paio di episodi. Uno è legato appunto a McCartney perché fu quasi un'intervista a sorpresa. Portarono me e altri giornalisti a casa sua in un posto fuori Londra, mentre eravamo lì per altri motivi. Entriamo in quello che sembrava un parco sterminato con un laghetto personale, e sulla porta ci ha accolti lui che mi ha detto "Sono io e sono vivo!", quindi che tu ci creda o meno è un modo straordinario per darsi un potere nei tuoi confronti, però anche per giocare e scherzare. Linda ci preparò le polpettine vegetariane, il camino, Yestarday e un sacco di bei ricordi.
E poi un altro ricordo personale è legato agli U2. Tantissimi anni fa scrivevo per il periodico Rockstar e facevo una trasmissione in Rai che si chiamava Stereonotte, e per qualche motivo io contribuii a far conoscere i primi U2 qui in Italia. Ebbi l'occasione di intervistarli nel tour di The Unforgettable Fire nel 1984. Tempi strettissimi, eravamo a Milano, in un Palatenda strapieno con il primo pubblico molto verace degli U2. Accadde però che il mio registratore che era a pile si stava fermando. Vedevo la cassetta che rallentava e mentre eravamo già a metà dell'intervista Bono se ne accorge e mi dice "Ti si stanno esaurendo le pile. Andiamo tutti a comprarle!". Prese The Edge e Larry e andammo dal tabaccaio con tutto il codazzo dietro. Questa cosa è rimasta nella mia memoria come un gesto straordinario. Poi mi invitarono in America 4 anni dopo per Joshua Tree. Ho visto la data del New Jersey con un backstage fatto di gente super vip ed io ero lì...insomma, ho visto il loro passaggio da ragazzi genuini a superstar. E poi li perdi, e quando li perdi è complicato.

Se fossi una rockstar che domanda ti faresti?

Oh Santa Pace!! Mi chiederei "Come fai a non stancarti delle tue canzoni dopo che le hai cantate centomila volte per il pubblico?". Probabilmente mi risponderei che ogni sera il pubblico te le reinventa, le canzoni non sono più tue ma è il pubblico che le rimette in vita, se ne appropria, tant'è che alcuni come Bob Dylan le distruggono per dimostrare in ogni concerto che sono canzoni sue e che anche se gli altri gliele rubano, a lui devono tornare. Invece quando c'è un buon rapporto con il tuo repertorio ogni sera lo senti diverso perché il pubblico ti rimanda quell'onda di energia che ti tiene in vita.

Come ti sei ritrovato a pensare a questa rassegna di incontri con gli artisti di ieri e di oggi, che stai conducendo al Teatro Tirso de Molina e qui al N'importe quoi? E se ci sono, quali difficoltà hai trovato?

Nasce perché con alcuni "manigoldi" miei colleghi abbiamo deciso cinque anni fa di fare un esperimento. Ci è venuta l'idea di mettere su un divanetto dei musicisti per farli parlare cercando di ritrovare la verità della musica fatta con poche cose, con una chitarra, un pianoforte, spogliando le canzoni per vedere se sono vere o se c'è un arrangiamento che le copre ma in realtà sono un "tarocco". Abbiamo scoperto che in realtà c'è tanta buona musica rispetto a quanto noi credevamo e abbiamo visto che c'era voglia di raccontarsi, voglia di partecipare, voglia di stare in un circolo magico dove l'energia si irradia da chi ascolta a chi suona, a chi parla. Poi questa cosa è andata avanti e quest'anno abbiamo anche provato a fare qualcosa dove il palco non fosse separazione ma unione. Quindi le difficoltà, sai, sono soltanto di ordine organizzativo, di far concordare le date quando devi incontrare qualcuno di particolare. C'è stata molta imitazione. Ho visto che questo format è stato molto imitato e quindi questo mi fa piacere perché io non rivendico, anzi, mi piace quando in più posti si occupa il territorio accendendo la musica al volume giusto.

Oggi nel tuo salotto ospiti The Niro che insieme a Diodato e Graziani era tra le nuove proposte dell'ultimo festival di Sanremo. Tacciato quest'anno di aver dedicato più tempo alle chiacchiere piuttosto che alla musica, a te cosa rimane di questa edizione?

Beh, mi è rimasto che è stato un clamoroso errore di scaletta e di confezione, perché per arrivare alla buona musica di Diodato, The Niro, Zibba, ecc, siamo dovuti passare attraverso un percorso quaresimale di prodotto televisivo. La Rai cosa dice? Dice che bisogna fare una sorta di grande varietà dove la musica ha una percentuale piccola di importanza; la cosa importante è che ci siano grandi ascolti in modo tale che gli inserzionisti e i pubblicitari che mettono soldi e che aiutano la Rai a ripianare il bilancio, perché quello è l'evento dell'anno, siano invogliati e tutto funzioni bene. Se gli ascolti ci sono...perché se gli ascolti non ci sono cade tutto il castello.
Quest'anno è stato fatto un errore di presunzione da parte di Fazio e gli altri nel voler riproporre il Festival dello scorso anno che era già vecchio e lento. Hanno messo troppo tardi i ragazzi, hanno caricato di cose autocelebrative, commemorazioni con bellissimi personaggi...ma di cinquant'anni fa! Quindi se uno si fosse addormentato sul divano, risvegliandosi si sarebbe chiesto "Ma quanto ho dormito, 50 anni? Ancora le gemelle Kessler?".
Mi rimane però la bellezza di questa buona musica, mi è rimasta una bellissima esibizione di Cat Stevens, di Damien Rice, Rufus Wainwright, e degli altri ospiti stranieri.

I ragazzi che stai incontrando hanno tutti un lungo percorso alle spalle. La loro musica è piena di influenze "esterofile". Come sta cambiando il panorama musicale italiano rispetto a quello che ascoltiamo dalle radio che forse ci viene anche un po' imposto?

Cambia poco, lentamente. Cambia però sfruttando quell'onda spontaneista, amarcoide, libertaria, che viene dalla rete, cioè dalle autoproposizioni su youtube piuttosto che in qualunque altro sistema tu possa far veicolare la musica al di fuori del grande circuito discografico che sta morendo perché c'è una crisi di sistema enorme. Quindi sta cambiando. Anche le radio iniziano ad accorgersi che non si può più riproporre la heavy rotation, la playlist con sette od otto canzoni fisse, perché tanto durano quello che durano...come il pop confezionato, plastificato...durano due o tre settimane, poi dopo cadono perché non c'è la stoffa. Quindi spero anche che queste piccole iniziative contribuiscano a rimettere in moto fiducia.

Raccontami un aneddoto che ricordi con piacere di uno di questi incontri!

Direi banalmente che me li ricordo tutti, ma più che altro la grande disponibilità dei cosiddetti "famosi". Questi ragazzi qui sono straordinari a rimettersi in gioco, ma quando si rimette in gioco ad esempio un Gateano Curreri che si alza e fa "Chiedi chi erano i Beatles" come se fosse al Palasport perché è entusiasta, o Noemi, o Finardi, o Fabirizo Moro, Luca Carboni, in un posto raccolto come questo...mi è piaciuto come loro abbiano riscoperto questa dimensione. Francamente quando tu sei un artista da palasport o da stadio, perdi il contatto. Vedi la prima fila oltre le transenne e però non sai più qual è il tuo mestiere. E in un posto come questo invece tutti mi hanno detto che è successo qualcosa di magico che li ha rimessi in riga con la propria anima.

Cosa ti senti di consigliare ad un ragazzo che si affaccia alla musica oggi?

Se spengi il registratore ti rispondo "Lascia perdere!" (ridiamo). No, consiglierei loro di avere molta consapevolezza di quello che è il momento. Se una persona fa musica lo fa perché è una sorta di maledizione, di condanna personale, di necessità: tu non puoi non fare musica. Però devi anche sapere che non sono più gli anni in cui potevi andare in una grande casa discografica e firmare un contratto di 4 o 5 dischi, avere un arrangiatore come Morricone, o Mogol che ti fa da paroliere. Tra l'altro adesso è un momento peggiore perché non siamo ancora passati dal disco al potere del virtuale assoluto. Non ci sono risorse. Chi fa musica lo fa perché non può fare altro sperando di poterlo fare a lungo. Ma il consiglio che do ogni volta è di fare tappa sempre su un posto diverso e di andare a suonare ovunque, perché non è più disco, ma è farsi ascoltare da tanto pubblico diverso sparso ovunque.

Io con le domande ho finito...controlliamo se abbiamo registrato tutto sennò finiamo come con gli U2. (Ridiamo)

[Foto di Matteo Nardone]

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