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Interviste
Pubblicato il 23/05/2006 alle 19:36:20Commenti alla notizia: Leggi - Inserisci nuovo

La mia banda suona i… Flaminio Maphia

di: Antonio Ranalli

Incontro con i Flaminia Maphia, ovvero G-Max e Rude Mc che hanno dato alle stampe Videogame (SonyBmg), il quinto album del gruppo.

Incontro con i Flaminia Maphia, ovvero G-Max e Rude Mc che hanno dato alle stampe Videogame (SonyBmg), il quinto album del gruppo.

Molta ironia, una buona dose di sarcasmo politicamente scorretto e tanti pugni allo stomaco che arrivano forti facendosi largo tra una fitta rete musicale sempre più organizzata e disseminata di esche irresistibili tra soul, carezze di Philadelphia sound, echi dance anni’70, R&B, synth analogici, melodia e canzone popolare e dialettale: i Flaminio Maphia continuano ad essere quello che sono crescendo. Hanno imparato a dosare tutto da maestri che, per fortuna, nonostante il successo, non salgono su nessuna cattedra. Il duo romano è ad una svolta dopo il successo di “Che idea” – come tutti sanno vero e proprio reprise e non sampler della canzone di Pino D’Angiò del 1982 – e la partecipazione al brano di Califano di Sanremo dello scorso anno. “Il primo rapper italiano e un maestro” hanno detto G-Max e Rude Mc che, a parte il massimo rispetto per chi ha lasciato un segno nella nostra storia musicale, sono da sempre convinti che la sopravvivenza dell’hip hop in Italia sia legata alla necessità di “allargare il campo”, di non ghettizzarsi, di appropriarsi dei linguaggi “emersi” e di non rimanere rabbiosamente legati soltanto a quelli “parental advisory” del mondo sommerso. Qui il grande ospite si chiama Max Pezzali e dà vita con i due ad un singolo formidabile, “La mia banda suona il rap”, brano straordinario, pronto a diventare un protagonista dell’estate, re del downloading ( legale però, non fate scherzi !!!). Anche il video, sempre con la partecipazione di Max, gioca la sua brava parte: ispirato al fumetto Sin City di Frank Miller , ripropone le raffinate atmosfere dark della “città del peccato”. Quasi un assaggio di “Videogame”, il titolo del cd e del brano di apertura, che preceduto dall’ “Intro” (la lamentosa supplica infantile “Giochiamo a fare la guerra?” che dà i brividi e che fa supporre subito che ci sia poco da scherzare ), spiattella la brutalità di un mondo ridotto ad un videogame che autorizza tutto e dove tutto è possibile, per prima cosa l’eliminazione fisica degli avversari. In pieno stile Flaminio Maphia, con un brano di attacco rude e spavaldo come ai tempi di “Bada”. E dopo questo biglietto da visita che conferma tutto - sì, sono loro - entriamo più in confidenza con “La mia bambola”, canzone per riflettere ridendo o per ridere riflettendo, tanto la morale è una sola: non prendere ad esempio i modelli sbagliati. Mai come in questo disco i Flaminio si sentono liberi di essere come sono senza paura di perdere un solo grammo della loro identità. Come quando in “My lady” dichiarano il loro amore per Roma, la Roma-Roma, non quella delle periferie, piuttosto quella di Armando Trovajoli e Pietro Garinei di “Roma nun fa la stupida stasera” cui la canzone si ispira idealmente. Come in “Stella di borgata” ( “…nella strada malata la vita è cambiata da quando sei arrivata…”) o come “Il giorno e la notte” dove l’appartenenza “etnica” all’universo coatto diventa particolarmente esplicita. Per finire poi a “Ragazzi di strada”, il totem delle durezze metropolitane è lì e non lo sposti, e “Scambi di materiale”(feat. Bassi e Club Dogo), un capolavoro di filosofia hip hop, quasi un manifesto di quello che sono i Flaminio Maphia anno 2006: diretti, sinceri, romanissimi, addomesticati a niente e nessuno. Abbiamo incontrati i Flaminio Maphia a Roma.

Antonio Ranalli: Siete arrivati al quinto album in studio, dopo tanti anni di onorata carriera.“Videogame” sembra muoversi, per alcuni brani, in una dimensione pop. Siete d’accordo?

Flaminio Maphia: Nel disco quello che senti è quello abbiamo voluto fare. Abbiamo lavorato di testa nostra nel nostro studio e quando abbiamo finito il disco lo abbiamo portato alla casa discografica. Non ci sono state imposizioni. In effetti sono le radio che ci vogliono così. Facciamo i brani più duri e non ce li passano. Poi usciamo con “Ragazze acidelle” e ci passano ovunque. Abbiamo trovato in Enrico Sollazzo un ottimo produttore, che ci ha fatto trovare una strada melodica, sempre però rapportata all’hip hop. Noi siamo stati i primi a parlare di rap di strada. Certo è cambiato molto da quando abbiamo iniziato nei primi anni ’90 a Piazzale Flaminio. Però raccontiamo sempre della nostra vita

A.R.: L’album esce in un periodo in cui sembra esserci un ritorno dell’hip hop. Coincidenza o casualità?

F.M.: Guarda ci sono stati nel corso di questi ultimi anni vari momenti, che hanno caratterizzato questo genere. In Italia in realtà c’è un problema culturale. Il nostro paese ha una grande tradizione su altri fronti, dalla melodia fino alla gastronomia, e quindi l’hip hop non rientra nel proprio Dna. Si tratta di una cultura che viene dagli Usa e rappresenta la cultura del momento, quella che viene dal basso e che da una possibilità a tutti, visto che tutti si possono cimentare in questo genere. In Italia c’è stata prima ondata nel 1992/92, poi un ritorno nel 1997/98. Il problema è che ci si stufa spesso delle novità. Sta poi nell’intelligenza delle persone sfruttare le opportunità offerte dall’hip hop. Per esempio, non capisco perché i ragazzi che vivono in zone periferiche, come Tor Bella Monaca, non facciano uso di questo genere, preferendolo invece all’houe music e alla tecno.

A.R.: Di recente il “Times” vi ha dedicato persino una pagina. Eppure restate un gruppo di nicchia in un certo senso…

F.M.: Si, anche se ci conoscono un po’ tutti, i nostri dischi non è che fanno grandi numeri. Con “Ragazze acidelle” siamo stati 15 settimane nella classifica dei singoli, tanto da arrivare a fare 15 mila copie. Ma la nostra vera forza è dal vivo. Ci vengono a vedere in tanti ai concerti. Quanto al “Times” noi abbiamo sempre sostenuto che Piazzale Flaminio a Roma, il posto da cui siamo partiti, è un posto un po’ anomale. C’era una grande comunità multirazziale: italiani, africani, francesi ecc. Ne abbiamo visto tante nella nostra vita e le abbiamo sempre riportate nelle nostre canzoni.

A.R: In questo disco fate più uso dell’ironia…

F.M.: Si, anche se avevamo già iniziato con il precedente ad essere più ironici. Indubbiamo il nuovo lavoro, sin dal titolo “Videogame”, fa capire la filosofia del CD: in ogni canzone si nasconde un videogioco. E dietro ogni canzoni, pur nell’ironia, raccontiamo la nostra attualità. Come nel “La mia banda suona rap”, con un video molto “Sin City”…

A.R. A proposito. Com’è che vi siete trovato a fare una canzone, con un titolo simile ad un brano del Piotta che sta per uscire?

F.M.: E’ stata una curiosa coincidenza, del tutto involontaria. Noi stavamo lavorando al nostro album. Poi un giorno sentiamo Piotta, che ci dice stava lavorando ad un brano chiamato “La mia banda suona l'hip hop”. In realtà sono due brani molto diversi. Infatti, quello del Piotta è una rilettura in chiave hip hop de “La mia banda suona il rock” di Ivano Fossati, mentre il nostro pezzo ha solo il titolo di simile.

A.R.: Com’è nata la collaborazione con Max Pezzali, che ha scritto e cantato con voi il brano?

F.M.: Con Max siamo molto amici da tanti anni. Ormai lui è un romano acquisito, visto che vive da alcuni anni a Roma. Ci sentiamo spesso e capita di uscire insieme. Da tempo parlavamo di collaborare insieme. Poi però lui ha una vita professionale molto impegnata, e quindi bisognava trovare i tempi giusti. Un giorno gli abbiamo spedito la demo de “La mia banda suona il rap” chiedendoli di scrivere per noi almeno un ritornello. Lui, entusiasta della cosa, ci ha inviato successivamente un demo con il ritornello e la linea melodica cantata da lui. Quello era solo un provino, ma noi ci siamo innamorati della cosa. Alla fine anche il suo staff, da Claudio Cecchetto a Pieraolo Pieroni, è rimasto soddisfatto, tanto da dare l’ok per rendere ufficiale questo duetto.

A.R.: In “Scambi di materiale” citate persino Pupo e la sua “Su di noi”…

F.M.: Noi omaggiamo molto la musica italiana, perché alla fine siamo italiani. E’ stato un gioco, nato per caso in studio, e penso che Pupo con la sua ironia apprezzerà.

A.R.: Com’è nata “Stella di borgata”?

F.M.: E’ stato il primo pezzo dell’album. Si pensava di presentarla anche a Sanremo, anche se poi la casa discografica ha pensato di proporre “L’arbitro”, che è stata ovviamente rifiutata. Comunque, il brano è un omaggio alla musica, che ci ha tolto da dove venivamo. Il pezzo vuole in qualche modo essere uno stimolo a quanto si trovano oggi nella condizione da cui noi proveniamo, e fare qualcosa per uscire.

A.R.: “La bambola”, invece, è un omaggio alle ragazze “burrose” o sbaglio?

F.M.: In quel pezzo canta solo io (G – Max nda). Le pischelle che piacciono a me sono proprio quelle con un po’ di chili. Io e Rude ci compensiamo: a lui piacciono quelle più anoressiche. Secondo me non si possono fare video sempre e solo con le fotomodelle. Con “La bambola” ho voluto fare un omaggio alla ragazza di tutti i giorni.

A.R. Abbiamo accennato prima alle vostre origini di strada. Qual è il vostro rapporto oggi con i ragazzi che vivono nelle periferie, spesso in condizioni disagiate?

F.M.: Proprio per questa nostra credibilità di strada ci vedono per come siamo. Certo, molti pensano che ci siamo fatti i soldi. C’è chi ci dice quanto guadagnamo per ogni video che passano in tv, quando in realtà siamo noi a dover pagare!!! Oppure in discoteca ci è capitato di trovare persone che ci chiedono di pagargli da bere. Ci vedono come persone che sono riuscite ad uscire dal loro quartiere (G – Max è di Monteverde, mentre Rude Mc è di via Bravetta nda), ma a volte anche con l’occhio sbagliato.

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