Tommaso Labranca: il Piccolo Isolazionista ama ancora Cerrone
di: Antonio Ranalli
Scrittore, autore televisivo, conduttore radiofonico, traduttore ed ora anche editore. Profondo conoscitore ed appassionato di musica, abbiamo intervistato Tommaso Labranca per parlare dei suoi libri e ovviamente di musica. Scrittore, autore televisivo, conduttore radiofonico, traduttore ed ora anche editore. Tommaso Labranca è l’autore di libri di culto come “Andy Warhol era un coatto” e “Il piccolo isolazionista”, oltre ad essere autore di alcune biografie di artisti musicali. Profondo conoscitore ed appassionato di musica, abbiamo intervistato Tommaso Labranca per parlare dei suoi libri e ovviamente di musica.
Antonio Ranalli: Ciao Tommaso, è un grande onore poterti ospitare su Musicalnews.com, portale nato nel 1999 sull’esperienza fatta nella realizzazione di fanzine e pubblicazioni musicali autoprodotte. Anche tu vieni dal mondo delle fanzine. Sul finire degli anni ’80 ebbe un certo successo la tua “TrashWare”. Cosa ricordi di quel periodo? E in particolari quali artisti, musicisti e scrittori di cui eri “fans” ti hanno in qualche modo fatto intravedere il percorso professionale che poi hai intrapreso?
Tommaso Labranca. “TrashWare” in realtà è nata nel dicembre 1991, quando ormai certo spirito indie da Anni '80 si era spento da un bel po’. Non ho mai prodotto una vera e propria fanzine, proprio per il gusto di non abbandonarmi mai al mainstream. Frequentavo, blandamente, un gruppo di poveri illusi, gente che aveva parecchi sogni di gloria musicali. E non solo, perché quello era il decennio della “multimedialità”. Non potevi limitarti a (fingere di) suonare il basso. Dovevi spacciarti anche per pittore, poeta e futuro romanziere, con grandi potenzialità pure nella recitazione e nella composizione minimalista per pianoforte. Oggi il personaggio cui alludo gestisce un’impresa attiva nel ramo dell’aria fritta. O forse è colpa mia, non sono cresciuto abbastanza per comprendere il mondo degli adulti.
Il gruppo si chiamava La Misère Provoque Le Génie. Il nome era opera mia. Se oggi qualcuno venisse a propormi qualcosa del genere, gli verserei del curaro nel caffè. Allora aveva invece un senso. Ripeto spesso che gli Anni '80 non sono stati quelli urlati oggi nei Gay Pride e fatti di ciuffi cotonati e spalline. Esistevano infinite sfumature. Dai bovari che facevano rockabilly ai noiosi neopsichedelici fino agli sconvolti. E poi c’erano le Signorine di Buona Famiglia Infatuate di Cultura Europea. La Misère rientrava in questo ambito. Ce la tiravamo moltissimo. In una frenetica diffusione di fotocopie, decisi quindi di pubblicare qualcosa di stampato. Così nacque “Artecrazia Italiana”, progetto pretenzioso che rubava il titolo a un’effimera pubblicazione futurista degli Anni 30. Mi vergogno moltissimo di quella operazione. Non tanto per il mio contributo, quanto per le spaventevoli baggianate scritte o disegnate dagli altri.
Chiusi i rapporti con quel gruppo, diciamo, creativo e ormai allo sbando (qualcuno iniziò a lavorare per la Telecom), mi ritrovai da solo. Fotocopiai un paio di cose, “Morbillo” e “Orsetti”. Soprattutto nello smilzo fascicolo di “Orsetti” (1988) si respirava già lo spirito degli anni a venire, in particolare il recupero dell’estetica Seventies.
La fine degli Anni '80 così come li vivevamo noi fu segnata da due cose: a livello globale, dal fatto che la 4AD, la mia svenevole casa discografica di riferimento, soprattutto per quanto riguardava Cocteau Twins, This Mortal Coil e Dead Can Dance, fece uscire quella orripilante tamarrata di “Pump Up the Volume”, dei M/A/R/S/S. A livello personale, un video in cui rovinavo le immagini cimiteriali accompagnate dalla voce di Lisa Gerrard con inserti dei Vianella in bianco e nero.
Erano anni in cui non si parlava che di computer e il suffisso -ware era usato a sproposito. Così nacque il nome “TrashWare”. Il primo numero era solo un quartino in cui bisognava indovinare quale dei quattro gruppi di neoliscio proposti esisteva davvero. La fonte di ispirazione erano le trasmissioni come "Cantaitalia", molto seguite sulle reti locali settentrionali.
Intorno a me giovincelli pervenuti tardi alla pretenziosità stampavano rivistine di critica artistica che leggevano solo loro. Io preferii darmi altrettanto in ritardo alle fotocopie. Ricordo uno di quei critici d’arte “stampati” che mi citava spesso. Un vecchio gallerista milanese di rara odiosità, oggi defunto, lo rimproverava dicendogli che citare “uno che fa le fotocopie è svilente per il tuo lavoro”.
Sono usciti dieci numeri di “TrashWare”, fino all’estate del 1994. Poi, entrato nel mondo dell’editoria ufficiale, non sentii più il bisogno di andare avanti. Ho distrutto tutto ciò che risale a quel periodo, allo stesso modo in cui ho bruciato tutto quanto riguardava il decennio precedente: cassette, fotografie, fanzine. Nonostante quello che qualcuno si ostina a pensare, io odio il passato, mi fa paura. Sogno spesso di ritrovarmi nell’85, nel ‘93 e sono sogni angosciosi perché il passato è una gabbia.
AR: Com’è avvenuto il passaggio dalle fanzine alle pubblicazioni ufficiali? Ogni tanto vado a rileggere alcune pagine dei tuoi primi due libri “Andy Warhol era un coatto” ed “Estasi del pecoreccio. All’epoca tutti parlarono di te e dei tuoi lavori sottolineando soprattutto l’aspetto inerente il trash e i prodotti di basso profilo culturale. Come avevi trovato i commenti ai tuoi lavori?
TL: Nel gennaio del 1991 avevo trovato il mio primo e unico “lavoro fisso” come redattore di una enciclopedia a fascicoli della De Agostini. “L’arte della pesca”: tutto il giorno a correggere testi su ami, carpe, lenze. È stata una scuola insostituibile. Ho appreso le regole di cucina redazionale della più pignola e sabauda casa editrice italiana. Ho imparato a impaginare su un Mac che c’era in redazione. Così, nel 1992, autoprodussi un librino che raccoglieva alcuni testi scritti per altre fanzine. Si chiamava “Agiografie non autorizzate”. Quando non lottavo con gli esperti di pesca a mosca, mi dedicavo alla stesura del testo teorico sul tema di quello che, sbagliando, chiamavo trash. Il risultato fu stampato sempre in maniera autoprodotta nel 1993. “Giovani Salmoni del Trash” uscì in due versioni a pochi mesi una dall’altra. La seconda era accompagnata dalla specifica “2.0”. Ma eravamo nel ‘93, quindi sono scusato.
Non ho mai mandato le mie cose a nessun editore. Fino al giorno in cui sentii parlare di Castelvecchi. Un mercoledì mattina preparai una busta con i librini autoprodotti, qualche numero di “TrashWare” e altro materiale e lo spedii a Roma. Il giorno dopo Alberto Castelvecchi mi chiamò. Il martedì successivo ero nel suo ufficio a firmare il contratto. Castelvecchi per me resta un genio.
Grazie alla sua rete estesissima di contatti, il libro ebbe una presenza mediatica eccessiva se rapportata alle vendite. Naturalmente mi scontrai subito con chi non capiva la mia idea di trash, con la massa di universitari fissati con la letteratura dell’impegno. Ho collezionato un bel po’ di insulti. Se citavo i Santo California, la signora chic che teneva una soffocante rubrica letteraria su Radio Popolare mi biasimava. Se citavo l’emulazione di Chaucer, gli studentelli mi accusavano di fare sfoggio di cultura. Insetti fastidiosi, null’altro.
AR: Nei tuoi libri e nei tuoi lavori fatti in televisione (come “Anima mia” con Fabio Fazio) e in radio la musica è sempre molto presente. Che cosa rappresenta per te la musica? Quali artisti ti hanno particolarmente influenzato?
TL: Mettiamo subito da parte quell’avventura con il noto intervistatore di filosofi francesi. Per carità, anche quella è stata un’esperienza che mi ha insegnato molte cose e mi ha permesso di lavorare in ambito televisivo. Ricordo solo che Fazio mi aveva chiamato perché aveva letto i miei due primi libri. Lo sottolineo perché lo studentume impegnato spesso dice con sprezzo che li ho pubblicati dopo la trasmissione. Nonostante le date stampate. Non avevo tutta questa libertà in quel programma. Musica e tv non vanno d’accordo. Si potrebbero fare grandi cose, invece ci si limita all’ospitata della solita star che fa mille e un capriccio prima di accettare. Viene, ma fa solo il pezzo in promozione e per di più in playback. Il codazzo di inutili discografici frustrati che l’accompagna è fonte di mille difficoltà. Quello non vuole essere intervistato, l’altro vuole fare un discorso a favore della pace del mondo. I duetti da prima serata sono falsi, preparati tra odio e invidie, cronometrando quanto tempo ho cantato io e quanto tu. Insomma, un ignobile mercato delle vacche.
Il più grande in questo campo resta sempre Lucio Battisti che nell’unico programmino che gli fecero condurre tolse tutta la scenografia e suonò molto con gli amici invece di parlare.
Oggi per avere spacciatori di banalità come Pausini, Ferro, Ligabue devi avviare trattative degne di una udienza tra il Papa e il presidente cinese.
La radio non è diversa. Quando lavoravo per Play Radio ero l’unico con la dispensa: potevo parlare male dei dischi che passavano. E che sono imposti dalle case discografiche, lo sanno tutti. Perché in Italia non abbiamo mai avuto qualcosa come le John Peel Sessions? Credo perché la maggior parte dei nostri divi da hit parade non sappiano fare grandi cose da soli e dal vivo. Solo RadioTre fa cose meravigliose dal punto di vista musicale, ma non in ambito pop.
Le private… battuta fetente del conduttore con l’ansia di finire a Zelig, disco delle major, venti spot pubblicitari di automobili e supermercati, altro disco delle major, altra battuta. Non c’è narrazione, non c’è invito alla scoperta. Per questo le uniche cose che ascolto in radio sono il Gazzettino Padano e le soporifere dirette su Radio Radicale.
AR: Ne “Il piccolo isolazionista” avevi citato molto Cerrone, artista che oggi in Italia pochi continuano a seguire. Continui ad ascoltarlo? Che cosa ti colpisce della sua musica?
TL: Quotidianamente! Cerrone era stato la mia compensazione al sinfonismo prog di cui si gloriavano i “fratelli maggiori”, barbuti e contestatari. Cerrone come Moroder, naturalmente. Le loro suite che occupavano un’intera facciata erano un mare ritmico in cui perdersi. Senza la divina lunghezza di “Love in C minor” non sarei mai stato in grado di apprezzare e seguire la Terza di Beethoven in cui mi imbattei a 16 anni, senza alcuna preparazione classica in quanto, a differenza di certe compagne di classe ricche ai tempi del liceo, a casa mia non passavano Muti e Abbado un giorno sì e l’altro no. E tutto quel poco che ho imparato, apprezzato e capito lo devo solo alla mia curiosità. E alla mancetta settimanale che i miei mi davano e che spendevo tutta in dischi.
In Italia Cerrone non è mai stato molto amato. In Francia è tuttora un guru, anche grazie ai remix house di qualche lustro fa. Ma in Italia fanno sempre i filoamericani. Io resto con Cerrone e le Adidas. Il rap e le Nike li lascio ai buzzurri.
AR: Cos’è stato il movimento “Nevroromanticismo”, cui avevi aderito insieme al cantante Garbo ed altri scrittori italiani?
TL: Domanda molto insidiosa. Vediamo di riassumere la cosa. Tramite Aldo Nove nel 1996 riusciamo a contattare Garbo. Renato (che sarebbe il vero nome di Garbo) fu molto incuriosito da quello che facevamo e così nacque il progetto “Nevroromanticismo”: un disco strumentale accompagnato da un libretto in cui un certo numero di scrittori offriva un breve testo ispirato da una delle tracce. L’unico brano cantato era “Up The Line”, accompagnato da un video con Isabella Santacroce.
Elisabetta Sgarbi della Bompiani si interessò alla cosa e pensò a un libro più approfondito. Invece i divi delle lettere si tirarono indietro. Fu organizzata una cena pagata da Bompiani alla fine della quale Ammaniti disse no, perché “c’aveva er film”. Scarpa disse che lui non si legava a nessun movimento. Nove era distrutto dal fatto che Ammaniti “c’aveva er film”. La Santacroce era altrove con la testa. Restammo a tavola Garbo, Elisabetta e io. E la cosa finì lì. Sono ancora in contatto e in ottimi rapporti con Garbo e mi spiace per lui. Tra tutti i partecipanti al progetto gli è rimasto il meno famoso, senza Strega e senza film. Ma ci vogliamo davvero bene come fratelli.
AR: Parliamo invece dei tuoi libri musicali. In tempi diversi hai dato alle stampe le biografie di Orietta Berti, Renato Zero e Michael Jackson. Che tipo di approccio hai scelto nello scrivere di questi tre artisti?
TL: Conobbi Orietta nel 1996 e ne fui conquistato. Mi venne spontaneo proporle un libro sulla sua vita. Lei era molto diffidente: i giornalisti non erano mai stati teneri e onesti nei suoi confronti. Capì subito che non ero di quelli. Ci siamo divertiti moltissimo nel crearlo e nel presentarlo. Al punto che l’anno prossimo 20090 lo riproporrà in una versione molto ampliata in occasione dei 50 anni di carriera di Orietta. In tutti gli altri casi l’unico movente sono stati i soldi. Ho deciso di fare lo scrittore per lavoro, non sto sotto il pero ad aspettare che cada l’ispirazione di testi alti e pregni. Se mi propongono un compito, lo accetto. Scrivo nel modo più onesto possibile. Il libro su Jackson fu una sfida: finirlo in 5 giorni. Quello su Zero preferisco dimenticarlo e non lo includo nemmeno nella bibliografia. Fastidi a non finire e comportamenti vergognosi da parte dei discografici del cantante.
AR: Da traduttore hai curato l’edizione italiana dell’autobiografia di Pete Townshend “Who I Am”. Alcuni fans italiani sono rimasti un po’ delusi dai contenuti del libro. Si aspettavano qualcosa di più dal fondatore e chitarrista degli Who. Tu come hai trovato il lavoro di Townshend?
TL. Di una noia mortale. Anche in questo caso avevo accettato per soldi. Ma non solo. Il mondo dei Mods mi ha sempre affascinato. Credo che se fossi nato qualche anno prima sarei stato un Mod. Di sicuro non un Rocker. Forse perché il movimento Mod è stato l’unico fenomeno giovanile fatto di eleganza pura, senza alcun elemento ridicolo come è successo per tutti gli altri. Pensa a quanto sono comici oggi i paninari con il mullet o i punk che si cambiavano in ascensore di nascosto dai genitori. I Mods non hanno una sola pecca. Invidio molto chi ha vissuto quell’epoca da protagonista.
Purtroppo nel libro di Townshend di quelle cose si parla solo di sfuggita. L’unico interesse di Pete Townshend è Pete Townshend. Ha fatto tutto lui, ha scritto tutto lui. Ha inventato persino Internet! Gli altri erano comparse sul palco, utili solo a creare uno scenario per il movimento del suo braccio. Purtroppo metà degli Who non può più parlare. Però, libro alla mano, vorrei fare parecchie domande a Roger Daltrey. Sono giunto alla fine del lavoro con un disgusto totale verso il personaggio.
AR: Dopo alcuni romanzi come “78.08”, “Haiducii”, “Astrakhan. La zia e l’estetica perbenista” e “Mu”, hai deciso di fondare una tua casa editrice la “20090”, con cui hai già pubblicato lavori di autori esordienti e oltre al tuo saggio “Progetto Elvira. Dissezionando il vedovo”, incentrato sul film “Il vedovo” con Alberto Sordi e Franca Valeri. Cosa ti ha spinto a metterti in proprio? Secondo te qual è il futuro dell’editoria tra edizioni tradizionali cartacee ed ebook?
TL: Mi sono “messo in proprio” per lo stesso motivo per cui molti musicisti si “mettono in proprio”: l’insofferenza verso chi dovrebbe gestire il tuo lavoro e non lo fa o lo fa male. Editori troppo narcisi che vogliono apparire al tuo posto, che rimandano l’uscita del libro per dispetto, che non pagano anticipi, royalties o spese di viaggio quando vai a fare le presentazioni. Che non muovono un dito per promuovere il libro. Allora se proprio devo lavorare in perdita meglio farlo da solo. In realtà 20090 è nata per pubblicare non i miei libri, ma quelli degli altri. Finora Luca Rossi e io (non dimentichiamo che 20090 ha due papà) abbiamo trovato tre autori anti-mainstream e bravissimi. Il futuro dell’editoria potrebbe essere il presente di 20090: pochi libri in tirature limitate, diffusi via Internet per evitare le dispersioni e le spese della distribuzione, ormai un elemento del tutto inutile. Gli e-book sono la nuova “grande truffa del rock’n’roll”. Non piacciono a nessuno, tutti si vergognano di pubblicare solo in e-book perché li confondono con i tremendi pdf che certi scrittori da weekend si creano da soli. Tieni presente poi una diffusa ottusità. In Italia l’e-book non è considerato “libro”, quindi è soggetto a un’IVA del 22% invece che del 4% come i volumi stampati. Ciò incide sul costo finale del prodotto elettronico che non risulta più conveniente di uno tradizionale. E fosse solo l’Italia. Due giorni fa ho cercato di acquistare da Amazon britannica l’e-book del libro autobiografico di Tracey Thorn degli Everything But The Girl. Impossibile: posso comprare e-book solo sul sito Amazon italiano. Dove quello della Thorn non c’è. In compenso ci sono tutti i “capolavori” di Mauro Corona e dei Carofiglios. Bella consolazione.
AR: In tanti si chiedono se tornerà “Il piccolo isolazionista”. Cosa c’è all’orizzonte per Tommaso Labranca?
TL. In un certo senso “Il Piccolo Isolazionista” è tornato con "Mu". In questo libro la fuga del giovane molisano è narrata in capitoli identificati dai titoli di brani dei Sigur Rós. Purtroppo per dissidi con l’editore "Mu" non è mai stato pubblicato in forma cartacea. Ma adesso l’editore è fallito e dovrei tornare in pieno possesso dei diritti sul libro. Appena accadrà uscirà per 20090. "Il Piccolo Isolazionista” resta il mio libro preferito. E allo stesso tempo è quello che ha fatto allontanare molti fan della prima ora. Quelli che avrebbero voluto una serie continua di saggetti sul trash. Magari per poi insultarti di scrivere sempre le stesse cose. Un mio sogno che resterà irrealizzato è una traduzione del “Piccolo Isolazionista”, perché si rivolge a una tipologia di persone diffuse in tutto l’Occidente, perse tra giga di musica e il fragile approccio con il mondo esterno che permette Instagram. Non a caso il mio account di Instagram si chiama proprio il_piccolo_isolazionista. E non posto mai foto di esseri umani.
Il prossimo libro invece sarà dedicato a tutto ciò che ho vissuto e incontrato nell’ambito del lavoro. Niente lacrime, precari e altra fuffa su cui hanno mangiato certi soloni, da Celestini al mio ex amico Aldo Nove. Solo mostri attivi nel settore della comunicazione, dei media.
Si chiamerà “Funemployment” e al 99% non sarà pubblicato da 20090, ma da un altro editore. Per restare in tema musicale, è strutturato come un Oratorio seicentesco in tre atti, composto da una successione di recitativi, arie e cori. Siete i primi a saperlo. Ho finito di mettere a posto faticosamente la struttura oggi pomeriggio.
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