Depeche Mode - Playing The Angel: un faro digitale nella notte della musica
di: Christian Diemoz
I Depeche Mode rompono un silenzio che durava da quattro anni con un album tutto disillusione e maturità. I Depeche Mode rompono un silenzio che durava da quattro anni con un album tutto disillusione e maturità.
Nel 1981 spuntarono quasi di soppiatto, figli di esperienze musicali borderline come i No Romance in China e i Composition Of Sound.
Pionieri incoscienti, nel fiore dei loro vent’anni, si avventurarono arditamente sul campo disseminato di mine dai guastatori della disco, per mostrare alle masse la possibilità di una via d’uscita da quel guano. Una corsia d’emergenza rappresentata da serenate tra il synth pop e la new wave (indimenticabile, tra tutte, “Just Can’t Get Enough”).
Ventiquattro anni dopo, rimasti in tre, i Depeche Mode sono ancora al loro posto. Quanto gli basta per autoproclamarsi futuri eredi, in termini di longevità, dei Rolling Stones. La loro “mission” non è cambiata di una virgola: dispensano sempre degli ottimi consigli sulla direzione da prendere per un’esperienza musicale poco convenzionale, lontana dai canoni della banalità ed intrisa di quella contaminazione che, per troppi, rimane ancora un’operazione commerciale, più che uno stato d’animo.
In questo senso, il nuovo album “Playing The Angel” (in uscita su Mute il 14 ottobre) è un potente faro digitale, a rischiarare un universo non più tormentato dai neon sgargianti dello Studio 54 e dagli strip club sulla 42a strada, ma da finti profeti e da false sirene. Gahan, Gore e Fletcher, che non entravano assieme in uno studio dal 2001, nel frattempo hanno varcato la quarantina, trovando, grazie alla capacità di uno sguardo più disilluso e maturo, nuove frecce da scoccare (significativo, al riguardo, l’esordio come compositore, in un album targato Depeche, di Dave, autore di “I Want It All”, “Suffer Well” e “Nothing’s Impossible”).
Non a caso, uno degli episodi più interessanti del cd è “John The Revelator”, violenta dissacrazione di un imbonitore di folle. Uno capace di raccontare, magari da un pulpito catodico, “sette bugie, moltiplicate per sette, ed ancora per sette” e in grado di “causare solo dolore”. La soluzione? “E’ ora di ridimensionarlo / Prendiamolo per mano / mettiamolo su un banco / e sentiamo i suoi alibi”. Il tutto, sullo sfondo plumbeo/decadente, impreziosito da effetti e rumori, diventato marchio di fabbrica della ditta da “Violator”, che in “Playing The Angel” raggiunge una dimensione ancor più raffinata e consistente.
Detto del falso profeta, ecco la sirena. Il suo nome, per Gahan e compagni, è “Lillian”. Non è dato sapere di cosa sia colpevole, ma per spingere i Depeche Mode ad occuparsi di affari di cuore deve averla fatta grossa. Ed infatti, la risposta arriva subito, sulle ali di un trascinante uptempo: “guarda cos’hai combinato / mi hai spogliato il cuore / lo hai ridotto in brandelli / per puro divertimento”. Peraltro, qualcosa che non andava c’era già dall’inizio, visto che “avrei dovuto saperlo / che ognuno dei tuoi vestiti / era come una pistola carica”.
Però, a quarant’anni si è anche meravigliosamente consapevoli che tra il bianco e il nero esistono mille sfumature di grigio. I Depeche Mode non fanno eccezione, per cui ecco lo sguardo ottimistico di “Nothing’s Impossibile” (“anche le stelle sembrano più luminose stanotte / nulla è impossibile”), che recupera le atmosfere musicali degli esordi. Allo stesso modo, Gahan sa bene che il passato è indelebile, come i tatuaggi sul suo corpo, e nell’ossessiva “The Sinner In Me” canta “mi sto riprendendo / sto uscendo dalle sofferenze / più noto per la mia rabbia / che per qualsiasi altra cosa”, mentre la chitarra di Gore diventa lo scalpello che imprime le parole nella mente di chi ascolta.
Nell’insieme, le dodici tracce di “Playing The Angel” (al primo singolo, l’inconfondibile “Precious”, seguirà tra poco “A Pain That I’m Used To”, brano di apertura dell’album) fanno del nuovo capitolo della discografia dei Depeche Mode uno di quei dischi che è meglio avere sullo scaffale (anche per esperimenti come lo strumentale “Introspectre” e per l’ermetica “Macrovision”). In attesa che il tour in partenza il prossimo 13 gennaio faccia tappa in Italia. Per vedere con i propri occhi la luce del faro spegnere la notte della musica.
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