Garbo: l'eroe romantico è tornato
di: Antonio Ranalli
Autore di album importanti per il rock italiano come "A Berlino... va bene", "Il fiume" e "Up The Line", Garbo ci racconta "Blu" la sua nuova fatica discografica. Sono passati poco piu' di 20 anni da "A Berlino... va bene", album dal rock intimista e decadente, che rivelava Garbo come uno dei musicisti piu' innovativi della musica italiana. L'artista, il cui vero nome è Renato Abate, si è subito imposto per il suo stile che guardava molto alla scena tedesca, ed in particolare al periodo berlinese di David Bowie e Lou Reed. Successo seguito da un tour di supporto a Franco Battiato e anche dalla partecipazione a due Festival di Sanremo. Oggi, dopo svariati album e collaborazioni, Garbo è tornato sul mercato con il nuovo CD "Blu", relizzato con la Mescal.
Antonio Ranalli: "Blu", il tuo nuovo album, è un lavoro direi fortemente intimista e riflessivo. Sei d'accordo? Come sei arrivato alla realizzazione di questo CD?
Garbo: Direi innanzitutto che è un album che osserva e descrive personaggi, ma anche angolazioni della mia personalità ambientate in una lunga sera dove la gente s’incontra oppure non riesce a farlo, ma forse sempre con il desiderio di comunicare e di ovviare ad una latente e contemporanea solitudine. BLU è nato nell’arco di 18 mesi di lavoro e mi sono accorto strada facendo che cresceva e si delineava Il tema generale di cui ho accennato.
AR: Com'è nata la collaborazione con i "Sirenetta H"?
G: Come spesso accade gli incontri sono casuali, come in questo caso. Abbiamo poi scoperto di avere
attitudini musicali comuni e il passo che ci ha portato a costruire “il suono” insieme è stato breve.
AR: Questo album fa percepire all'ascoltatore atmosfere molto evocative e notturne. E' per caso la conseguenza di un tuo particolare stato d'animo, al momento dell'incisione di "Blu"?
G: Come già ti dicevo l’ambientare questo album in una lunga ipotetica sera mi ha permesso di descrivere
più angolazioni emotive mie e dei miei personaggi e di immergerle in un sound volutamente evocativo fatto di immagini quasi cinematografiche.
AR: Facciamo ora qualche salto indietro nel tempo. Sono ormai passati più di 20 anni dal tuo esordio per la EMI con "A Berlino... va bene". Che cosa ricordi di quel periodo? Che cosa rappresentava per te la città di Berlino, che poi ha dato il titolo all'album e all'omonima canzone?
G: Di quegli anni ricordo un clima di grande fermento musicale e di voglia di sperimentare nuove strade.
Berlino in fondo rappresentava e non solo per me il desiderio di affermare un’identità decisamente
più internazionale ed europea ripetto la musica che si produceva. Quindi il tentativo di sprovincializzare il nostro modo di comunicare.
AR: Hai partecipato anche al Festival di Sanremo negli anni '80 con i brani Radioclima e Cose Veloci. Un ambiente un po' insolito per un'artista innovativo come te, ma che comunque ti ha posto all'attenzione della critica (che ti ha anche assegnato un premio). Che cosa rimane di quell'esperienza dal sapore nazional-popolare?
G: Tutto sommato quelle partecipazioni mi hanno dato l’opportunità di farmi conoscere ad una platea molto vasta. Se faccio musica è perchè ho il desiderio di comunicare indistintamente a tutte le persone che possono o desiderano ascoltarmi. E’ chiaro anche che esistono spazi più o meno consoni al tipo di artista che cerca di proporsi. D’altra parte quei Sanremo hanno permesso a molta gente di scoprire che ci sono più modi di fare “canzoni” in Italia.
AR: Con l'album "Il fiume" passi da un pop elettronico e decadente ad un rock più diretto e maturo. Cosa ti spinse a questo cambiamento di stile?
G: Più che di cambiamento parlerei di un momento evolutivo e di ampliamento del mio sound. Più ti sperimenti, più album produci più cresci e desideri arrichire le possibilità espressive.
AR: Sul finire degli anni '80 hai abbandonato le Major per approdare ad etichette indipendenti. I tuoi lavori degli anni '90 sono secondo me dei veri "innovatori culturali", nel senso che hanno voluto dimostrare come in Italia, nonostante tutto, sia comunque possibile fare musica d'avanguardia
e sperimentale. Mi riferisco in particolare ad "Up The Line", dove ti avvali della collaborazione di scrittori pulp. Come mai questa scelta e la decisione di comporre molti brani strumentali?
G: Ricollegandomi alla domanda precedente penso che crescendo si desidera conoscere e percorrere
strade anche nuove. Desideravo staccarmi in quel periodo dal modello “canzone” e realizzare un
lavoro più complesso nella sua scrittura musicale per spaziare in territori per me nuovi. L’idea di realizzare brani prevalentemente strumentali mi ha permesso da dare voce, attraverso una serie di brevi racconti, a scrittori che stimo e che volendo collaborare a quel progetto hanno cercato di interpretare attraverso le loro parole l’atmosfera che quella musica generava.
AR: "Grandi Giorni" potrebbe essere visto come un tuo ritorno alle origini, ma anche una riconciliazione con il pubblico di massa. Com'è nato questo album?
G: Dopo l’esplorazione di “Up the line” è stato per me naturale desiderare di tornare a fare musica “pop”, ma con nuovi elementi ed un bagaglio più ricco. Ho immesso in “Grandi giorni” parte dell’esperienza tecnica e compositiva che avevo maturato i due anni addietro.
AR: "Blu" è uscito per la Mescal, una delle realtà più significative della discografia italiana. Com'è stato lavorare con loro?
G: Mi sono avvicinato alla Mescal per il rigore, la capacità e il coraggio che ha di produrre musica non necessariamente nazional-popolare. Il rapporto con il team Mescal è sorretto da stima e rispetto reciproco e da un confronto costruttivo e costante. Ho ricevuto sostegno e consigli, sempre mantenendo da parte mia la massima libertà espressiva.
AR: Porterai "Blu" in Tour?
G: E’ sicuramente uno degli obbiettivi più imminenti ed importanti che abbiamo in cantiere.
In questi giorni sto proponendo in alcune città dei mini-live di presentazione di “Blu” a cui seguiranno da settembre dei veri e propri concerti.
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