Due chiacchere con mr.Franklin Delano: verso un New Deal musicale?
di: Andrea Gianessi
In occasione dell’imminente tour negli States abbiamo deciso di fare una chiaccherata con Paolo Iocca dei Franklin Delano, una interessante realtà dell’underground musicale italiano... e non solo!! In occasione dell’imminente tour negli States abbiamo deciso di fare una chiaccherata con Paolo Iocca dei Franklin Delano, una interessante realtà dell’underground musicale italiano... e non solo!!
Allora Paolo, vorrei iniziare questa intervista chiarendo subito una curiosità… cosa ha a che fare la vostra band con l’America e in particolare con Roosvelt, il presidente americano del New Deal da cui prendete il nome?
>Paolo Iocca: La scelta del nome di Roosvelt è solo dovuta al suono delle parole. Il nostro collegamento con l’America è, allo stesso modo, casuale. Siamo cresciuti in una cultura postmoderna, in cui i film western avevano forse più valenza culturale di una festa di paese. Naturale perciò volgersi verso un suono vicino a quello della musica che ci piaceva di più.
So che il vostro ultimo disco “Like a smoking gun in front of me” è stato registrato tra Bologna e Chicago, una storica città del blues, dove avete inoltre destato l’attenzione dell’etichetta File 13. Vuoi parlarmi di questa esperienza americana? Come è avvenuto il contatto con la record label d’oltreoceano?
>P.I.: File 13 si è dimostrata interessata al nostro sound quando ha ricevuto un cd da un nostro amico, Onga di Basemental (che ha anche collaborato fattivamente al processo realizzativo del packaging/artwork del cd). Quando noi ci siamo fatti avanti chiedendo consigli sulla distribuzione oltreoceano etc., loro si sono fatti avanti con una proposta concreta. La nostra volontà iniziale era quella di registrare il disco a Chicago. Alla fine abbiamo trovato un buon compromesso, registrando i suoni a Bologna, agli Alpha Dept. e mixando e sovraincidendo le tracce dei Califone ai Clava. Anche il mastering è stato eseguito a Chicago. È stato un processo molto naturale e le cose si sono all’improvviso messe in fila da sole. Ne abbiamo approfittato per farci una vacanzetta negli States, a masterizzazione avvenuta. Una sorta di riposo del guerriero, con visita ai Sin Ropas nella loro nuova dimora in North Carolina, e un tuffo nella vita americana di tutti i giorni anche a Chicago. Siamo tornati con due valige in più e le idee molto più chiare su come funzionano le cose laggiù…
A conferma di questa propensione per gli Usa ora partirete per un lungo tour negli States… quali sono state le difficoltà nel preparare un tour così impegnativo, e cosa vi aspettate dal pubblico americano?
>P.I.: Un tour americano è molto difficile da realizzare. Prima di tutto senza qualcuno sul posto che si occupi di booking è (soprattutto all’inizio) molto difficile riuscire ad avere il quadro esatto di come funziona laggiù e quindi ad agire nel modo giusto. Trovare un’agenzia di booking è altrettanto difficile. All’inizio poi bisogna accontentarsi di andare in perdita, perché i locali non pagano se non quando inizi a portare pubblico. Spesso non ti offrono neanche la cena e da dormire – a volte neanche da bere… Poi non dobbiamo dimenticare il “protezionismo” delle leggi americane. Mentre per un artista americano è molto semplice giungere in Europa per fare un semplice tour, per entrare negli States come musicista per un tour, hai bisogno di visti speciali e “sponsorship” da qualcuno laggiù – costa tantissimo ed è quindi irrealizzabile per molti – ridicolo se si pensa al fatto che i soldi noi li andremo a spendere invece che a guadagnare. Poi c’è tutta la logistica implicata: il furgone, il backline…
Al vostro ritorno sarebbe interessante un resoconto della vostra esperienza, ma ho sentito che è già in preparazione il tour europeo. Sarete dunque molto impegnati per i mesi a venire…
>P.I.: Parecchio. Riguardo il tour europeo non si conoscono ancora i dettagli. Ma appena torneremo saremo sicuramente live a Patchanka, Radio Popolare Network, intorno all’ultima settimana di Maggio.
Restando in Italia… sono curioso di conoscere il tuo punto di vista sulla situazione dell’underground musicale nel “bel paese”. Etichette indipendenti come la vostra, la veneta Madcap Collective, sembrano regalare una boccata d’aria vitale… raccontaci questa esperienza.
>P.I.: Madcap più che un’etichetta è un collettivo. Si occupa non solo di produrre musica – nonostante sia una delle sue attività prevalenti. Questo aspetto è molto interessante, perché qualsiasi discorso che tende ad omologare le attività di un’etichetta non attecchisce fino in fondo su di loro. Madcap avrà sempre una via di fuga dalla standardizzazione dei processi culturali che attanagliano le etichette. Troverà sempre brillanti e inedite soluzioni, lì dove tutti finiranno a fare magari cose simili. Ci siamo conosciuti a una festa di fine anno e siamo diventati amici. Quando cercavamo aiuto per l’uscita dell’album, loro ne hanno preso a cuore le sorti e si sono fatti in quattro perché la cosa avesse il miglior impianto organizzativo possibile. Purtroppo in Italia non c’è grande possibilità di fare le cose in un certo modo. Le spese sono alte, e il mercato non è abbastanza vasto per garantite delle entrate utili. Noi pensiamo che la situazione stia cambiando. L’underground musicale italiano pullula di belle proposte, di caratura potenzialmente internazionale. Manca però l’interesse da parte del pubblico in primis (ma la mia impressione è che ci sia finalmente un’inversione di tendenza) e di investimenti da parte di etichette e distributori. Un suicidio commerciale, perché si continuerà a favorire l’ingresso di musica estera invece che esportare, in un mercato più vasto, musica prodotta da artisti italiani. Pensa solo che noi siamo distribuiti attraverso File 13, un’etichetta americana. Non è un paradosso?
E' decisamente una situazione paradossale!!
Ma, cambiando discorso, prova a descriverci liberamente la vostra musica, i vostri testi, il vostro progetto…
>P.I.: Lasciamo scorrere i nostri pensieri e le nostre emozioni intorno a melodie semplici e minimali e ci lasciamo andare. Lavoriamo molto sulle dinamiche e sull’interplay. Non disdegnamo la forma canzone, anche se non ne siamo schiavi. Non siamo schiavi del radio edit, del tempo e dello spazio. Le parole dei testi esprimono stati d’animo non facilmente descrivibili razionalmente, ma probabilmente condivisibili a un livello più profondo. Ognuno di noi ha dei punti di riferimento, che, nella loro diversità, creano il suono Franklin Delano. Nessuno di noi si preoccupa di quanto distanti possano essere due suoni a livello di coerenza. Una batteria rock su un pezzo sussurrato può essere interessante come un brano noise senza nessun drumming. Inutile tentare di catalogarci, semplicemente ascoltare con attenzione per apprezzare le sfumature e i dettagli.
Concluderei con un auspicio per il futuro…
>P.I.: Beh, che il pubblico che viene ai nostri concerti e compra i nostri dischi condivida il giudizio positivo delle recensioni, e che il prossimo disco sia più bello di questo.
Allora ciao e in bocca al lupo!
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