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Interviste
Pubblicato il 23/05/2014 alle 12:37:57Commenti alla notizia: Leggi - Inserisci nuovo

Sergio Caputo: ''In trent'anni il 'sabato italiano' non è cambiato''

di: Massimo Giuliano

Un libro, un tour e un album riveduto e corretto: così Sergio Caputo ha scelto di festeggiare i trent'anni di "Un sabato italiano". Il tour è partito a dicembre da Milano e, dopo aver già toccato città come Roma, Bari e Padova, sarà stasera a Pescara

Un libro, un tour e un album riveduto e corretto: così Sergio Caputo ha scelto di festeggiare i trent'anni di "Un sabato italiano". Il tour è partito a dicembre da Milano e, dopo aver già toccato città come Roma, Bari e Padova, sarà stasera a Pescara. Abbiamo incontrato l'artista.

Sergio, entriamo subito nel vivo: perché l’operazione “Un sabato italiano 30”?
Perché “Un sabato italiano”, uscito nel 1983, è un disco che ha fatto epoca, tanto che Rolling Stone lo ha menzionato tra i più venduti e i più belli di sempre. Non potevo ripubblicare l’album così com’era perché ha risentito di tutte le mode che c’erano a quei tempi: i sintetizzatori, il computer e via dicendo. Se 'Un sabato italiano' fosse rimasto negli anni ’80 mi sarebbe andato bene, ma in realtà mi ha seguito per tutta la carriera e mi è rimasto addosso come una seconda pelle. Non riuscivo più ad ascoltarlo in quella forma lì e mi trovavo anche a disagio con quel suono quando ero ospite in una radio o dovevo esibirmi in playback in tv. Era dunque doveroso rifarlo per riconsegnarlo al pubblico, anche a un nuovo pubblico che all’epoca non c’era, e al quale ho scelto di restituire questo album in una forma classica, jazzistica, in modo tale che tra cinquant’anni non debba reinciderlo ancora. Adesso è la versione definitiva!

Com'è cambiato il sabato in tutto questo tempo?
In realtà tra il “primo” e il “secondo” sabato non è cambiato niente in trent’anni, perché il sabato è sempre la giornata in cui uno vuole staccare la spina dai problemi e divertirsi. E non è necessario essere miliardari per poterlo fare. Normalmente, durante la settimana, la vita passa in secondo piano. Il sabato è sempre questo, e io spero che non cambi mai.

Come descriveresti il tour con cui stai attraversando l’Italia?
“Un sabato italiano 30 show” è un live unico nella mia carriera. Io dal vivo ho sempre rifatto non più di un paio di pezzi di quell’album, e adesso invece lo eseguo tutto intero. Ci sono anche cose che non avevo mai proposto prima d'ora: ho riscoperto, ad esempio, il piacere di cantare brani come “E le bionde sono tinte” e “Weekend”. La band, poi, è la migliore che io abbia mai avuto ed è composta da ragazzi che nella maggior parte dei casi non erano neanche nati quando è uscito il primo ‘Sabato Italiano’. E' un gruppo molto motivato e agguerrito, con musicisti bravissimi che si sono formati e si sono avvicinati al jazz suonando le mie canzoni. Raramente mi è capitato di girarmi e di vedere persone che si stanno veramente divertendo.

Ti sei cimentato anche nella scrittura di un libro, vero?
Sì. Per celebrare questo trentennale ho pensato di pubblicare anche “Un sabato italiano memories”, in cui si parla di amori, donne, luoghi, amici, scorribande notturne... e anche di argomenti che i cantautori non trattano tanto volentieri come droga e alcool. C’è insomma la storia dell’album, di come è nato. In 'Un sabato italiano memories' si trovano cose che mi sono state chieste per trent’anni e che ora finalmente ho raccontato. E' un periodo positivo per me: anche “Disperatamente e in ritardo cane” (romanzo pubblicato da Caputo nel 2008, ndr) sta vivendo una nuova vita. Il tour riflette questo clima festoso e, durante lo show, abbiamo non solo tutto il “Sabato italiano” ma anche momenti più intimi, nei quali regalo al pubblico brani che non si sentono abitualmente in giro. E poi non mancano i classici che la gente si aspetta da me, inclusi quelli latini che rappresentano usualmente la parte più agitata.

Nella nuova versione di 'Un sabato italiano' ci sono anche due inediti. Me ne parli?
Si chiamano “C’est moi l’amour” e “I love the sky in september”, e sono due canzoni d’amore un po’ stramplate. La prima è molto autobiografica: il protagonista è un uomo, con un certo numero di naufragi amorosi dietro le spalle, che cerca di convincere una donna di essere lui l’amore della sua vita. La seconda è un inno alla riscoperta delle cose semplici della vita: l'amore, una bella giornata etc. I video riflettono la nuova cultura dei social network: sono stati girati entrambi per YouTube, quindi vi si ritrovano selfies e attimi di vita vissuta come se fosse una timeline di Facebook. Addirittura ‘C’est moi l’amour’ è una videochat dove si capisce che c’è questo gioco tra un lui e una lei dall’altra parte dello schermo. Oggi, quando si vuole sentire un brano nuovo, si va su YouTube, quindi da questo momento in poi ogni pezzo che farò avrà il suo video su YouTube.

Nel 1978 hai pubblicato con la It il tuo primo 45 giri: "Libertà dove sei/Giorni di festa". Cosa ricordi di quel periodo?
Fu un esordio condito da molta inesperienza, molta insicurezza e anche con un successo molto relativo: quel 45 giri, infatti, è stato conosciuto più dopo che subito. La It era un’etichetta discografica prestigiosa, essendo la stessa di De Gregori, Venditti e Rino Gaetano. Appena entrato lì, dunque, mi sono ritrovato nello stesso ambiente di lavoro di questi grandi artisti. Vincenzo Micocci era un padre-padrone: ti insultava, aveva modi anche molto bruschi, magari ti diceva all’improvviso di fargli sentire un brano… però era un grande personaggio.

Sei stato al Festival di Sanremo tre volte: nell'87, nell'89 e nel '98. Ti piacerebbe tornarci?
Partecipare di nuovo a Sanremo? Non ho fatto tentativi di alcun tipo in questi ultimi anni. Devo dire che secondo me ormai il Festival non rappresenta più la canzone italiana da molto tempo: è una manifestazione di altro, dei media, dove entrano cose estranee alla musica che non favoriscono la crisi che c’è attualmente nel mercato e sono contrarie a uno sviluppo della canzone italiana vera e propria. Oggi, se dovessi tornare a Sanremo, ci andrei come attore o scrittore!

Che rapporto hai con l'ironia, che ha sempre caratterizzato i tuoi testi?
Molto buono, direi. Pensa che il 12 aprile sono stato invitato a tenere, alla Facoltà di Psicologia di Roma, un seminario su ironia e psicanalisi! Nell’ironia mi ci identifico bene: serve a sdrammatizzare emozioni importanti, che non è detto che debbano essere espresse in modo verboso o erudito. L'ironia rappresenta un altro modo di vivere. Anche se noi italiani siamo più portati al melodramma, io tendo a parlare della vita in maniera semplice, anziché attraverso emozioni quasi teatrali che fanno comunque parte del nostro modo di comunicare.

Nel tuo palmares puoi vantare collaborazioni importanti tra cui quella con Dizzie Gillespie...
L'incontro con Dizzie ha significato la benedizione di un grande del jazz nei confronti della mia musica. Ne vado orgoglioso, ma io non sono mai stato un cacciatore di star: ho voluto lavorare con quegli artisti più che altro perchè lo vedevo come un completamento di ciò che stavo facendo in quel momento. Poi è chiaro che la mia lunga permanenza negli Stati Uniti mi abbia arricchito moltissimo: lì c’è un approccio più appropriato alla musica in generale e al jazz in particolare. Il jazz è nato completamente negli U.S.A., ed è una musica molto specifica. Quindi andare lì e suonare con loro, avere un gruppo lì, è stata una magnifica esperienza.

A proposito di musica dal vivo, tu finora hai pubblicato due live: "Ne approfitto per fare un po' di musica" e "La notte è un pazzo con le mèches". A quale sei più legato?
Senza dubbio al secondo. "Ne approfitto per fare un po' di musica" (pubblicato nel 1987, ndr) è stato il mio primo live ed è entrato abbastanza nella storia, ma risentiva di tutta la mia inesperienza. Amo di più "La notte è un pazzo con le mèches" (uscito nel 2009, ndr) perché dietro ci sono tanti anni di esperienza di palco che nel primo live non ci potevano essere, e poi perché è un album che mi rappresenta di più per come sono adesso e per quella che è la mia sensibilità musicale. Nel primo disco gli arrangiamenti furono fatti dal classico maestro, mentre in quest'ultimo gli arrangiamenti erano miei, e in tale veste mi ci riconoscevo di più.

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