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Pubblicato il 18/11/2007 alle 12:10:12 | |
Per Massimo Priviero il nuovo cd e' rock e poesia con Bob Dylan, Tom Waits, Bruce Springsteen, Eagles...
Il rocker italiano realizza un viaggio dentro i grandi classici dei '60/'70 riarrangiando un sacco di hits. Nell'album compaiono anche due inediti, ma ci sono anche rivisti Creedence Clearwater Revival e Platters!
Il rocker italiano realizza un viaggio dentro i grandi classici dei '60/'70 riarrangiando un sacco di hits. Nell'album compaiono anche due inediti, ma ci sono anche rivisti Creedence Clearwater Revival e Platters!
Gia' dal 29 ottobre nelle radio si poteva ascoltare il suo remake di Blowing In The Wind, ma l'intero album e' stato disponibile nei negozi dal 1 Novembre. Come si intitola il disco? Ma semplicemente Rock & Poems e non vediamo l'ora di poterlo recensire...
Per poterlo comprendere nel suo spirito piu' profondo, non resta che affidarsi alle parole testuali di Massimo Priviero. Ecco come descrive ciascuna canzone:
Iniziai a suonare da ragazzino, a metà dei ’70, perché qualcuno mi regalò un disco di Bob Dylan. Il mio sogno di ragazzo non era di far dischi, né di aver successo, ma era quello di suonare “Tambourine” in giro per le strade d’Europa e mantenere in quel modo i miei vagabondaggi di ventenne. Lo feci pochi anni dopo. Ricordo quel tempo come uno dei più intensi e folli della mia vita.
Blowing In The Wind è la prima canzone che la mia chitarra ha suonato e che la mia voce ha cantato. E’ stata fatta in mille modi, ma mi è piaciuto rincontrarla in questo viaggio. E’ uscita elettrica, appoggiata su un suono di chitarra solido ed antico anche dopo aver risentito un vecchio live “At Budokan”. Ho spinto a tratti molto sulla voce, usato una ritmica molto marcata, servendomi alla fine di un coro dal sapore gospel che la liberasse liricamente, solo poco prima di chiudere.
The Sound Of Silence è una ballata geniale nella sua malinconia, nella sua apparente fragilità, ma è anche un “gancio” complesso e continuo. Ho progressivamente cercato di caricarla musicalmente ed emotivamente, sia con la voce che con gli strumenti, avendo riferimenti timbrici originali assai lontani dai miei e dai quali volevo star lontano. Tuttavia volutamente, ho conservato e rifatto l’incipit originario di chitarra, fragile e immortale. Continuo, dopo tanto tempo, a considerare “…The words of the prophets are written on the subway walls” una delle più belle frasi mai scritte in una canzone.
Resistance è la versione inglese di “Dolce resistenza”, la title-track del mio ultimo album italiano. Chi mi conosce sa che l’idea di resistenza, in varie forme, accompagna da sempre la mia vita. E’ forse quello che un tempo alcuni chiamavano “il messaggio”. “Resistance” è la mia, e spero non solo la mia, parte più emotiva fatta di forza, di energia, di difesa di un modo di esistere, di camminare e di credere in qualcosa per cui vale la pena credere. Quando ancora riesco a trovare questo dentro di me e quando ancora riesco a vederlo in qualcuno, tutto questo diventa le chitarre, il piano, la progressione ritmica e armonica di questa canzone.
Chimes Of Freedom è una delle più grandi canzoni mai scritte. Il testo è poesia purissima, visionaria, onirica, universale. I pochi accordi che la sostengono potrebbero accompagnarla per ore, come potrebbe essere per accompagnare un poema. Ne ho scelto una versione che spesso facciamo in concerto e che inizia con un recitato per poi prendere spinta, memore anche di varie versioni rock che ha avuto questa canzone, non ultima una di Springsteen. E’ come leggere un libro a voce alta, che all’inizio canti su registri bassi e che poi si carica sempre di più. Un libro che non smetti di leggere, perché pensi che ci stai trovando dentro qualcosa in più di quel che sei, di quel che credi, di quel che sogni.
Ol’55 Avevo molte alternative incontrando le canzoni di Waits, soprattutto verso il Waits più “dritto”, ma tanti anni fa lo scoprii ascoltando questa ballata che in origine gli Eagles portarono al successo. Per questo motivo l’ho scelta, dunque per il legame forte verso questa canzone oltre che per la sua bellezza, cercandone una mia lettura e provando al contempo un ipotetico “cross” tra le due versioni. “Ol’ 55” scava in fondo all’anima dei vagabondi di varia umanità. Ho spinto ancor più in questa direzione, appoggiandomi a chitarre energiche in difficile equilibrio con fisarmoniche solitarie, in apparente contrasto sonoro, invece spesso parti di una stessa anima.
The Promised Land. La verità è che, volutamente, in tanti anni di concerti e di canzoni, non ho mai suonato un pezzo di Springsteen su un palco, pur rimanendo probabilmente l’unico rocker europeo che ha avuto al fianco per un periodo della sua carriera, all’inizio dei’ 90, un chitarrista e un produttore di un suo album di nome “Little Steven Van Zandt”. In tutto questo, viaggiando nei miei ’70, è uscita alla fine “The Promised Land” in questa versione così scarna, sofferta, lenta, dove chitarra, mandolino e fisarmonica sorreggono solo i crescendo degli incisi, dove la canzone è retta unicamente da una linea di piano che sorregge la voce, dove tutto vuole proprio andare sulla voce cruda, come se fosse qualcosa che tu canti da solo in silenzio e dove qualunque suono o qualunque rumore “contaminerebbe” in qualche modo l’emozione.
The Great Pretender. Da bambino, mentre girava su un vecchio giradischi, guardavo a volte mio padre ascoltare e canticchiare questa canzone, nella versione dei Platters. Così, tante volte nel corso degli anni mi è venuta in mente questa splendida canzone d’amore. Alla fine, ribaltandola e poi provandola con la band, ne è uscita una versione che diventa un rock’n’roll in spinta. Ho cercato dunque, e per quel che mi riguarda trovato, il punto di equilibrio tra quel ricordo, quella immagine e quel che poi questa melodia è diventata per me.
Desperado Solitario, outsider, per certi versi anche “looser” almeno nel pensiero dominante. In fondo è anche molto di quel che sono. I primi Eagles (come Browne e Young per esempio) scrivevano grandi canzoni lavorando molto su questa poetica, accompagnandola nel loro caso anche a splendidi impasti vocali. Questa versione è un po’ spaccata in due, fragile e scarna nella prima parte e strumentalmente aggressiva nella seconda. Tuttavia, la voce continua volutamente nella sua strada senza cambiare, come se non si accorgesse che la band è entrata “pesante” a sorreggere, proteggere e dar forza al suo struggimento.
Marchin’On è una mia canzone che parla di soldati solitari, in qualunque latitudine e in qualunque tempo a chiedersi la ragione incompresa di una marcia, di una guerra, di un nemico da combattere. La voce, la cadenza, la fisarmonica, i salti “emozionali” servono ad accompagnare questo cammino senza sosta e forse senza senso in modo diverso, aprendosi e chiudendosi in successione, senza volutamente mai liberarsi melodicamente del tutto, ma caricando lo struggimento passo per passo, fino alla fine della marcia.
Have You Ever Seen The Rain è un grande classico dei Creedence che ti trasmette, ad eseguirlo, il puro e splendido piacere di suonare. Un piacere, e spesso una felicità e un’emozione, davvero”fisica”. Ho cercato anche per questo di conservarne il “modo” originario, ripercorrendo in questo caso il cammino originario, solo aggiungendo una fisa che colorasse di “cajun” il brano e che in questo caso non immalinconisce, ma al contrario rafforza la dimensione di felicità e di piacere che spesso esiste in questo modo di fare musica.
Lily of the west è una bellissima melodia irlandese (“Lakes of Ponchartrain”) rifatta in tanti modi, a diverse latitudini, con testi diversi. Tante versioni che ho sentito, fatte da grandi artisti come da magnifiche e sgangherate bande da pub, ne conservano intatta la dolcezza e la malinconia. Questo è quel che anch’io ho cercato di conservare, solo caricando il finale con un salto di tono per rafforzare ancor più il senso del racconto, provando a dare energia e solennità ulteriore a questa meravigliosa e disperata canzone d’amore.
We shall overcom” Piano, organo, voce. Una canzone, un modulo ostinato di canzone, che mi capita da tanti anni di fare ai concerti non come un inno autoconsolatorio, nostalgico o celebrativo, ma molto più come un semplice e infinito bisogno di pace.<
Grazie per la collaborazione Pietro Giannetta @ P&G PROMOTION pietrogiannetta@yahoo.it e Gianna Lonuzzo @ UNIVERSAL gianna.lonuzzo@umusic.com
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