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Recensioni
Pubblicato il 03/08/2013 alle 14:41:49
Blur - Milano (Ippodromo del Galoppo di San Siro) 28/07/2013
di Ambrosia J.S. Imbornone
Un live fiacco imposto da una reunion di interesse? Tutt'altro: i Blur a Milano sono compatti e grintosi. Il volto sperimentale e colto del brit-pop, la raffinatezza di un'alt-rock levigato, una lezione per le band degli anni Zero, 10.000 spettatori.

Una domenica caldissima a Milano: l' aria e' immobile, ma l' atmosfera frizzante in attesa della tappa milanese del tour 2013 dei Blur, all' Ippodromo di San Siro.

All’incirca 10.000 spettatori si assiepano pian piano sotto il palco e aspettano l’inizio di un live che non prevede l’apertura affidata a supporter; sui maxischermi passano in loop le immagini degli artisti che hanno animato il fitto calendario del City Sounds 2013, nomi transgenerazionali che hanno spaziato dai Deep Purple ai National, dagli Atoms for Peace agli Earth, Wind & Fire.

Dei Blur si ascoltano pochi secondi del video di Song 2: era l’aprile del 1997 quando fu pubblicato questo singolo, che raggiunse il secondo posto nella UK Singles Chart e il sesto nella Billboard Modern Rock Tracks Chart. Da allora il quartetto londinese ha pubblicato altri due album, un paio di dischi live, qualche inedito e il box-set celebrativo Blur 21; è stato in pausa, ha rischiato lo scioglimento definitivo per via dell’uscita dalla band del chitarrista Graham Coxon, si è disperso in progetti solisti e si è ricomposto tornando a calcare i palchi mondiali.

Il pubblico presente è inevitabilmente formato soprattutto da trentenni, nostalgici della Cool Britannia, che non hanno visto il gruppo dal vivo negli anni Novanta o vogliono cantarne ancora le canzoni in una sorta di megaraduno del fan club italiano. Ma cosa aspettarsi allora? Una band molto diversa da quella di Song 2? Dei ragazzi invecchiati, a disagio nel vestire ancora i panni musicali dei loro vent’anni? Un gruppo annoiato e poco compatto, tenuto insieme solo dall’interesse economico degli incassi della reunion live, che già si lecca i baffi pensando alle possibili vendite di un disco di inediti da pubblicare nel 2014? Quando però Damon Albarn, Graham Coxon, Alex James e Dave Rowntree salgono sul palco dell’Ippodromo del Galoppo sulle note forse del brano più giovanilistico in scaletta, Girls & Boys, sembra chiaro che i Blur sono carichi, grintosi, uniti e pronti a regalare un concerto di notevole livello, con pochissime sbavature.

I saltelli del frontman e il suo rito dell’aspersione del pubblico accaldato con fiumi di bottigliette d’acqua (quando forse il repellente per le zanzare sarebbe stato più utile, in un’estate milanese tormentata dalle loro fastidiose punture) a volte appaiono gesti un po’ forzati, come se prescritti da un ruolo da recitare, ma forse sono solo dettati dalla giusta dose di ansia da prestazione e dall’adrenalina che stimola a non accomodarsi sugli allori, ma a dimostrare di essere ancora una band d’eccellenza. E in primis lo stesso Damon Albarn è protagonista di un’ottima performance vocale: si prende un po’ in giro per qualche momento esageratamente urlato, ma sa anche lavorare di fino sulla sua vocalità, ora sfoderando un’eleganza da crooner, ora stupendo per precisione, intensità, potenza. E musicalmente il live non è da meno: i Blur ricordano e confermano pienamente di aver incarnato ed incarnare ancora il lato più colto e sperimentale del brit-pop, nell’orchestrazione naturale e misurata dei fiati (apprezzabile ad es. nella brillante Country House), mai fuori posto, mai pomposi, o degli inserti sobri e ben calcorati delle coriste gospel, la cui presenza discreta serve soprattutto ovviamente a perfezionare una versione quasi filologica della hit di grande effetto e dal sapore folk Tender, con immancabile coda acustica, per prolungare i cori del pubblico entusiasta.



La ricchezza e complessità degli arrangiamenti dei Blur emerge ad esempio nella straordinaria Caramel, cupa perla-preghiera finalmente elevata alla dimensione live dallo scorso anno e pertanto riemersa dai tormentati abissi interiori esplorati del loro album più dark, 13 (1999), che, al pari e ancor più del precedente Blur (1997), può essere definito il più lontano dalla cordialità solare del brit-pop e il più immerso nei meandri di distorsioni dell’alternative, rilucidati live dalle chitarre lancinanti e mugghianti di un Coxon in gran spolvero. La parte centrale strumentale del brano, diretta da un Damon, che, alzatosi dalla sua postazione alle tastiere, pare agitarsi irrequieto e scosso dai suoi demoni interiori, diventa una sinfonia elettroacustica di grande effetto, malinconica e sofferta, prima di una conclusione soffusa e sacrale.

In altri brani, quelli dei Blur più acerbi (il secondo singolo della loro storia, targato 1991, There’s No Other Way, fin troppo brit-pop nel suo andamento cantilenante, oppure For Tomorrow del 1993) o pezzi di pur pregevolissima fattura e caratura live (come Trimm Trabb, estratta ancora da 13, nella sua inquieta, magnetica tristezza senza luce, oppure la torbida rockballad del ‘97 Beetlebum) il segno del sound degli anni Novanta sembra un po’ troppo presente/pesante, ma in quale splendore fosco di fantasie musicali che catturavano in vortici convulsi d’introspezione, oppure, come un’acceleratissima e vertiginosa Popscene, di scosse ritmiche elettrizzanti! Durante questo brano Albarn e Coxon si contorcono come indiavolati sul palco; il secondo, per quanto sempre tendenzialmente serioso, sembra forse il più in forma fisicamente, mentre il cantante sembra leggermente appesantito, per quanto conservi la sua bellezza da angelo maledetto, di cui godranno ben bene le ragazze delle prime file centrali, ovviamente pronte a tastarlo e accarezzarlo dappertutto nelle sue sortite sulle scale del palco, mentre bascula su decine di mani. Look sbarazzino e adolescenziale anche per il bassista Alex James, scalzo e in pantaloncini come ad un party sulla spiaggia, mentre, invecchiato, ma più che grintoso dietro alla sua batteria, appare Rowntree.



La base ritmica sarà in bella evidenza d’altronde durante tutto il live e complessivamente tutto il gruppo appare in gran forma musicale: sembra divertirsi e per questo divertire ancora più agevolmente la carica dei 10.000 presenti; si respira aria di festa, senza divismi di sorta. Non a caso la band non si scompone, anzi accoglie con simpatia e curiosità l’apparizione di un fan che riesuma per l’occasione il cartone del latte del video di Coffee & TV, suo estroso costume di carnevale, e che viene spinto e condotto dal pubblico fin sopra il palco, ritrovandosi a ballare e scherzare con il gruppo. La scena è tanto gustosa da sembrare – a torto – preparata ad arte e non creata dall’evoluzione degli eventi, che invece hanno sorpreso lo stesso fan nei panni di Milky, tale Federico, e resterà sicuramente nella memoria dei presenti come uno dei momenti più divertenti del concerto. C’è da dire che in molti hanno notato durante il siparietto un pizzico di disappunto e di stizza in Coxon, dato che l’ “intruso” gli ha indubbiamente rubato la scena nell’unico brano in cui era voce solista, mentre tra l’altro Damon, alla chitarra acustica e ai cori in questa canzone, era ben più libero di gigioneggiare e ballicchiare sul palco con l’inatteso ospite. Ma non gettiamo inutile benzina sul fuoco sugli storici attriti tra i due, entrambi elementi complementari e indispensabili per il gruppo. A difesa di Albarn d’altra parte si può affermare che tanti anni sulla scene da idolo del sesso femminile, tanti anni di militanza in una delle ultime band che ha coniugato qualità e impatto mediatico “iconic”, non sembrano averlo reso un galletto tronfio e montato, ma un artista ancora spontaneo e rapito dalla sua musica.



In scaletta c’è spazio per brani che propagano atmosfere molto differenti tra loro, da quella elegante e agrodolce della cadenzata To the End, chicca da brivido estratta dallo storico Parklife (1994) per la prima volta dal 2009 ed infiocchettata dal delizioso basso in rilievo, a quella ironica della titletrack molto british dello stesso disco, con le sue strofe recitate, fino al mood malinconico del meteo di This Is a Low o del presente di false occasioni e controlli satellitari di un’ottima The Universal, intensa e dolente (da The Great Escape, 1995).

Porta indubbiamente il marchio di fabbrica dello sguardo fermo e disincantato della band la mid-tempo End of the Century, ritratto sociale di una generazione omologata e anestetizzata, che scappa dalla solitudine, mentre accorata risulta, nella sua combinazione di bassi, suoni di una lievità da sogno triste e chitarre dolorose la riflessiva ballata Out of Time, singolo di punta dell’ultimo album di inediti dei Blur so far, Think Tank (2003). Ancora, tra le canzoni dell’encore, la grazia melanconica del raffinato singolo del 2012 Under the Westway, con Damon al piano, culla e accarezza, raccogliendo gli spettatori in una bolla di intima delicatezza, mentre l’energia esplosiva dell’attesa Song 2 suscita salti all’unisono e pogo esaltati per una chiusura più che scoppiettante. Resta il desiderio di un secondo e mancato encore? Forse, ma dopo un concerto dai ritmi così serrati non c’è da chiedere di più.

La sensazione è quella di aver assistito a un evento in cui entusiasmo genuino, qualità levigata, finezze di strutturazione e arrangiamento, prorompente vigore rock sono stati in perfetto equilibrio. Tra i gruppi degli anni Zero ben pochi oggi, nel mondo del rock indipendente, al di fuori dalle nicchie, possiedono la personalità, l’eclettismo costituzionale e le idee che avevano (o hanno ancora?) i Blur. E guai a chi li sottovaluta, confinandoli nei limiti angusti di un pur ben limato e confezionato pop.



Setlist:
Theme from Retro
Girls & Boys
Popscene
There’s No Other Way
Beetlebum
Out of Time
Trimm Trabb
Caramel
Coffee & TV
Tender
To the End
Country House
Parklife
End of a Century
This Is a Low

Encore:
Under the Westway
For Tomorrow
The Universal
Song 2


Foto 1 e 2: Ambrosia Jole Silvia Imbornone
Foto 3, 4 e 5: Andrea Lucarini

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